Alessandro Stradella – Cara dolce libertà

Alessandro Stradella – Cara dolce libertà Guida mostra Festival mag-00 III 2

Festival A. Stradella “Cara e dolce libertà”

Testi di: dott. Paolo Antonini e Padre Roberto Fagioli
Maggio 2000

ALESSANDRO STRADELLA
“Cara e dolce libertà”

Il Rinascimento si presenta, anche in campo musicale, come un’età di grandi equilibri, il vecchio e il nuovo si trovano infatti sintetizzati nella nuova concezione armonico-tonale. In bilico tra la struttura essenzialmente orizzontale della musica del Quattrocento e quella verticale della musica del Seicento, il Rinascimento sviluppa un felice equilibrio tra contrappunto e armonia. D’altra parte questo equilibrio è un po’ come una sintesi dello spirito di quella nuova età: accantonata ormai la spiritualità profonda dei secoli precedenti che si esprimeva attraverso l’indeterminatezza tonale del canto gregoriano o le arditezze contrappuntistiche della polifonia quattrocentesca, sconosciuta ancora la sensualità molle e contrastata della monodia seicentesca, il Cinquecento aspira ad una razionale armonia delle forme. Le linee orizzontali del contrappunto s’incontrano e si equilibrano perfettamente con quelle verticali dell’armonia. Ne scaturisce una musica di rara perfezione formale, capace di creare algide e limpide atmosfere, riscaldate però molto spesso, nei musicisti più grandi, da una ininterrotta tensione verso il bello e da una spiritualità trascendentale e contemplativa.

Tuttavia questo prezioso equilibrio non poteva durare, il senso tonale, il gusto per la monodia, già da lungo tempo presenti nella più semplice e immediata musica popolare, si fanno avanti e si accordano sempre più con la sensibilità delle nuove età. Il Rinascimento è presto finito, quelle contraddizioni che lo avevano percorso come un cancro maligno e silenzioso, anche nei suoi momenti più alti, vengono alla luce. Gli ideali classici di armonia e di bellezza cedono il passo ad una sensibilità più cupa e tormentata.

Se Ludovico Ariosto poteva sviluppare le sue mirabolanti fantasie alla luce di un profondo ideale di misura e armonia, di divina mediocritas, venate solo da un vago senso della fugacità della vita, capace di sparire come i castelli di Atlante o di disperdersi come il senno degli uomini,

Altri in amar lo perde, altri in onori
Altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
Altri nelle speranze de’ signori,
Altri dietro alle magiche sciocchezze;
Altri in gemme altri in opre di pittori,
Et altri in altro che più d’altro apprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

Orlando Furioso, XXXIV, 85

Torquato Tasso è un uomo squassato da stridenti contraddizioni, la sua tormentata religiosità è, di tanto in tanto, sommersa da una sensualità morbosa, così anche la peregrinazione salvifica dei crociati si trasforma a volte in una beffa, come nel combattimento che contrappone inconsapevolmente i due giovani amanti Tancredi e Clorinda.
Non è un caso forse che proprio questo episodio della Gerusalemme liberata sia stato splendidamente musicato da Claudio Monteverdi, una delle personalità più significative del Seicento italiano e del passaggio dall’equilibrio rinascimentale tra contrappunto e armonia alla monodia.

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
Che vi s’immerge, e ‘l sangue avido beve;
E la veste, che d’or vago trapunta
Le mammelle stringea tenera e leve,
L’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

Gerusalemme liberata, XII, 64

La Camerata de’ Bardi: il recitar cantando

Intorno al 1580 alcuni poeti e musicisti romani e fiorentini si radunano presso il palazzo del conte Giovanni Bardi, essi discutono dell’antica musica greca e della possibilità di recuperarne la purezza monodica, rinunciando per sempre agli artifici del contrappunto. L’ideale dei musicisti della Camerata de’ Bardi è il recitar cantando, cioè la possibilità di mettere al centro del canto monodico la parola, ed anzi di amplificarne il messaggio attraverso la musica. Tra questi musicisti vi sono Vincenzo Galilei, liutista e teorico, autore di un Dialogo della musica antica e della moderna pubblicato nel 1581, Jacopo Peri, Giulio Caccini e il romano Emilio de’ Cavalieri.
Nel 1589 molti di questi musicisti mettono in atto le nuove teorie nelle musiche composte come intermedi in occasione delle nozze del granduca Ferdinando I e Cristina di Lorena. La monodia accompagnata meglio si adatta alla nuova visione della vita, più sensuale e sbrigliata, allo stesso tempo però anche più malinconica e tormentata.
Giulio Caccini intitola, non a caso, una sua raccolta di composizioni pubblicata nel 1602 Le nuove musiche, dove la novità consiste appunto nel superamento della polifonia e quindi in una struttura più semplice che si presenta con una monodia accompagnata da una parte strumentale che non è più, come era accaduto fino ad allora, una rielaborazione strumentale della frase polifonica, ma un semplice accompagnamento armonico.

L’opera

Ancora prima il gentiluomo romano Emilio de’ Cavalieri, anch’egli un rappresentante della Camerata de’ Bardi, dà alla luce a Roma una vera e propria opera in stile recitativo la Rappresentatione di anima et di corpo (Roma 1600), un dramma allegorico realizzato in forma rigorosamente teatrale, con scene e costumi.
A Roma questo nuovo genere si va sviluppando sempre più, e sempre più all’insegna della monodia accompagnata, anche se presto si cercherà di distaccarsi dal rigoroso recitativo fiorentino. Non mancano quindi cori polifonicamente strutturati né tanto meno uno stretto dialogo tra le varie voci e tra le voci e gli strumenti: ne è un esempio la Catena d’Adone di Domenico Mazzocchi. Tutte le composizioni di Domenico Mazzocchi sono in effetti caratterizzate da uno stretto dialogo tra voci e strumenti, interrotto solo di tanto in tanto da brevi recitativi.
A Roma inoltre l’opera subisce anche altre importanti modifiche, le tradizionali favole pastorali, un’eredità dell’epoca precedente, vengono sostituite da soggetti mitologici e storici, le scenografie si fanno sempre più complesse e sontuose e, soprattutto, al recitativo si contrappone sempre con maggiore evidenza l’aria, caratterizzata da un sviluppo melodico ben definito.
Altri rappresentanti dell’opera romana sono Stefano Landi (Sant’Alessio, 1632), Virgilio Mazzocchi (Chi soffre speri, 1639), Marco Marazzoli (Dal male il bene, 1653), Luigi Rossi (Il palazzo incantato d’Atlante, 1642); tutti questi autori accentuano i caratteri dell’opera romana, sviluppando sempre più la magnificenza della messa in scena e inserendo nei drammi parti comiche.
Frattanto il cremonese Claudio Monteverdi non soltanto riprende l’uso di scrivere madrigali ad una sola voce con le altre voci riassunte nell’accompagnamento armonico e scritte sinteticamente con cifre apposte alle note fondamentali del basso, secondo la pratica detta del basso continuo o numerato (gli esecutori debbono quindi, partendo dalle indicazioni date dal compositore, dalle note fondamentali del basso, come si è detto, realizzare l’accompagnamento armonico), inizia anch’egli a distaccarsi dall’esangue recitativo fiorentino piegandolo all’espressività del testo poetico. Con Monteverdi anche l’orchestra che esegue l’accompagnamento armonico acquista una sua specifica qualità dialogando espressivamente con il canto.

L’oratorio

Sempre a Roma nel corso del XVI secolo s’era sviluppato, partendo dalla lauda, l’oratorio, uno spettacolo sacro privo di scene e costumi; un apporto fondamentale allo sviluppo di questo genere musicale venne dall’opera di apostolato portata avanti da San Filippo Neri, che volle portare la parola di Dio al popolo anche attraverso il fascino e l’eloquenza dell’arte, rifiutando però le complessità e l’intellettualismo della polifonia del suo tempo. Da qui una struttura semplice, legata alla monodia, carattere tipico della lauda, e l’uso del volgare in luogo del latino: una voce narrante, l’historicus, porta avanti la narrazione, mentre altre voci dialogano tra loro dando una rappresentazione puramente uditiva della storia.
Nel corso del ‘600 Giacomo Carissimi partendo dalla forma del mottetto, dà un notevole sviluppo all’oratorio in latino (Jefte, Gionata, Abramo e Isacco, Giudizio di Salomone).
Il XVII secolo vedrà poi anche l’apporto fondamentale allo sviluppo di questo genere, in special modo dell’oratorio in volgare, di altri due grandi musicisti, Alessandro Scarlatti (La Vergine addolorata, Agar e Ismaele esiliati) e Alessandro Stradella (La Susanna, Ester, Santa Editta, San Giovanni Battista).

La cantata

Il madrigale, forma principe della polifonia tardorinascimentale, comincia, come si è visto, a modificarsi, già il sesto libro dei madrigali di Claudio Monteverdi, pubblicato nel 1614, non ha quasi più traccia di struttura polifonica: “conserva sì, grande libertà e ampiezza melodica: ma che queste si attenuino, che il ritmo si schematizzi sulla metrica del verso, che la melodia si circoscriva in regolari ritorni strofici, sull’esempio della canzone, ed avremo l’aria. D’altro lato il libero declamato monteverdiano si spoglia sempre più di melodicità, ed ecco il recitativo. Ecco, cioè, gli elementi della cantata, sacra o profana, specie di scena lirica da concerto, consistente nella varia combinazione di uno o due recitativi e arie” (M. Mila. Breve storia della musica). Riflettendo sul pathos espresso da un madrigale monteverdiano come Lasciatemi morir, Gustave Reese afferma che “se era compito della musica ritrarre emozioni così forti, e se era destinata a farlo in toni sempre più grandiosi, la piccola arte cameristica del madrigale doveva inevitabilmente tramontare, per essere sostituita dalle più ampie forme della cantata e dell’opera” (G. Reese, La musica nel Rinascimento).
Un’altra novità importante apportata, sembra, dal napoletano Alessandro Scarlatti è l’aria col da capo, elemento importante per lo sviluppo dell’opera e della cantata, perché contribuisce a diversificare nettamente l’aria, caratterizzata da una forte valenza melodica, dal recitativo, che finisce con l’avere sempre più un ruolo secondario di momento di passaggio da un’aria all’altra. Il sempre minore interesse per il recitativo è inoltre evidenziato dall’uso di accompagnarlo con una base strumentale estremamente povera, in genere pochi accordi del cembalo.
Quattro grandi scuole vengono tradizionalmente identificate in Italia, romana, napoletana, veneziana e bolognese.
Alessandro Stradella, grazie anche alle vicissitudini della sua vita che lo portarono a vagare in giro per l’Italia, pur appartenendo di diritto alla scuola romana, sintetizza nella sua opera anche i caratteri fondamentali delle altre scuole, la varietà e la vivacità tipica della scuola romana, caratterizzata anche dall’uso minimo del recitativo, il virtuosismo della scuola veneziana e l’invenzione melodica di quella napoletana.

Altri grandi compositori autori di cantate sono i romani Luigi Rossi e Giacomo Carissimi, Giovanni Legrenzi, Pietro Francesco Cavalli e Antonio Cesti legati alla scuola veneziana, il padovano Giovanni Battista Bassani, Giovanni Maria Bononcini e Giovan Paolo Colonna, appartenenti alla cosiddetta scuola bolognese e infine i napoletani Alessandro Scarlatti e Francesco Provenzale.
Tutto ciò porta ad una preponderanza della musica sul testo poetico, al quale ormai si richiede semplicemente una struttura strofica ben chiara e ordinata che si adatti alla musica; siamo quasi all’opposto rispetto alla ricerca dei musicisti della Camerata de’ Bardi, alla loro aspirazione ad una musica che seguisse il testo e che, anzi, ne mettesse in evidenza le valenze poetiche.
Anche rispetto a queste problematiche l’opera di Stradella appare in qualche modo estremamente matura, egli cerca sempre, infatti, di adattare la sua musica al testo, ed anzi, di metterne in evidenza la struttura ed enfatizzarne i versi più significativi.

P.A.

 

IL RAMO NEPESINO DELLA FAMIGLIA STRADELLA
di Padre Roberto Fagioli

Questa storia comincia agli inizi del 1982 con una lettera della dottoressa Patrizia Radicchi dell’Università di Pisa, diretta al Sindaco di Nepi. Impegnata in una ricerca sulla famiglia di Alessandro Stradella, la Radicchi aveva trovato dei documenti che facevano riferimento a Nepi; perciò, prima di intraprendere il viaggio, chiedeva di essere informata se realmente a Nepi vi fossero fonti da cui attingere notizie utili alla sua ricerca. Da tempo il sindaco, Ezio Polidori, con nobile gesto di fiducia, aveva messo a mia disposizione l’archivio notarile. Da allora cominciò la mia collaborazione nella ricerca con la professoressa Carolyn Gianturco, fino al convegno internazionale tenutosi a Siena, presso l’Accademia Musicale Chigiana a cominciare dall’8 settembre 1982 e a quello tenutosi a Modena a cominciare dal 15 dicembre 1983.

GLI STRADELLA A NEPI

La vicenda nepesina degli Stradella di Fivizzano inizia con un membro della famiglia, ALESSIO, frate dell’ordine di S.Agostino, che nel 1575 fu nominato Vescovo di Nepi e Sutri dal papa Gregorio XIII (Ugo Boncompagni di Bologna 1572-1585). Rimase Vescovo fino al 1580, destinato poi ad altri incarichi. L’opera più incisiva del suo episcopato fu l’erezione del Seminario, “nel quale siano otto putti con il suo maestro di grammatica e di musica”. Per quest’opera il Vescovo chiese la collaborazione del Comune, il quale gli mise a disposizione un locale con “tutte quelle cose che saranno de bisogno per detto conto”. Questa iniziativa del Vescovo rivela anche il suo livello culturale: si capisce la presenza del maestro di musica, si può spiegare solo con una inclinazione personale del Vescovo e con la sua formazione culturale in un istituto religioso come l’Ordine di Sant’Agostino.

FULVIO, fratello del Vescovo Alessio lo seguì a Nepi, forse come collaboratore per l’amministrazione del patrimonio vescovile. Come situazione personale, Fulvio si accasò a Nepi; il 20 luglio 1576 stipulò contratto di matrimonio con Lucrezia Tabussi, figlia di Giacomo da Spoleto, vedova di Giacomo Ambrosi da Marta: aveva già tre figli: Orazio, Artemisia e Costanza. Fulvio nel 1581 fu aggregato nel Consiglio Generale del Comune, segno questo che aveva ricevuto la cittadinanza nepesina, che si era dotato di un discreto patrimonio e aveva dato prova di saggia amministrazione. Morì nei primi mesi del 1588, infatti il 7 marzo a Marcantonio viene assegnato un tutore nella persona di Adriano Petroni.
Lucrezia il 16 luglio 1588 stipulò il contratto per un altro matrimonio con Domenico Balada da Morlupo. Questi era stato già tra i “familiari” del Vescovo Alessio; fu in seguito amministratore dei beni che la Camera Apostolica possedeva in Nepi. Da questo matrimonio il 27 settembre 1592 nacque Francesco che fu frate dell’Ordine di San Domenico col nome di Fra Giacinto. Radunati tutti i figli di Lucrezia con i propri, Domenico Balada nel 1600 “assegnò” una famiglia composta di “quattordici bocche”.

MARCANTONIO nacque il 12 agosto 1579 e fu battezzato lo stesso giorno, così infatti allora si usava; padrino al battesimo fu Adone Salvi Luogotenente cioè Vice Governatore di Nepi per conto del Cardinale Aldobrandini nipote del Papa Clemente VII.
A soli 13 anni investito del Cavalierato di S. Stefano, già goduto da un suo zio, Giannottino, con la dispensa dall’età e dal luogo di investitura, che fu Roma e non Pisa o Livorno; dispensa caldeggiata anche da Lucrezia con una supplice petizione al Granduca di Toscana.

L’Ordine cavalleresco marinaro era stato fondato dai Medici di Firenze con sedi a Pisa e Livorno. Domenico Balada nel 1591 si era recato a Fivizzano per rendersi conto della consistenza del patrimonio del cavalierato.
Vivendo fin dall’infanzia con Domenico Balada fece buone esperienze nell’arte amministrativa fino a diventare depositario nella gestione dei beni della Camera Apostolica in Nepi. Si applicò anche nella editoria musicale, facendo stampare in Roma nel 1609 il “Libro primo de Madrigali a cinque voci” di Giovanni Girolamo Kapsberger.
Nel 1608 fu aggregato al Consiglio Generale del Comune, dove sedette fino alla morte, salvo due parentesi: dal 1626 al 1633 risultando operante a Gallese a servizio del Principe Altemps e dal 1640 al 1644 quando dovette lasciare il territorio dello Stato Ecclesiastico a causa della guerra di Castro dichiarata e combattuta dal Papa Urbano VIII (Barberini) contro i Farnese. Fu nel gruppo dei quattro Priori, corrispondente in qualche modo alla odierna Giunta Comunale, in diversi quadrimestri, tanto durava in carica ciascun gruppo: nel primo quadrimestre del 1609, nel terzo del 1612, nel secondo del 1624 e nel primo del 1626. Dopo il ritorno da Gallese fu Priore nel terzo quadrimestre del 1634. Nel 1639 era deputato alla sorveglianza dell’acquedotto civico di allora. Esercitò anche l’ufficio di Vice Governatore di Nepi in luogo di Bernardino De Sanctis quando si assentava da Nepi; il De Sanctis aveva la sua residenza privata in un lato del palazzo di Marcantonio situato ad angolo tra via di Corte e via Termo Larte.
Avvicinandosi l’inizio della guerra di Castro (1641-1644), Marcantonio dovette pensare alla posizione in cui si sarebbe trovato; era suddito dello Stato Ecclesiastico, quindi avrebbe dovuto combattere contro l’esercito del Papa; come Cavaliere di S. Stefano era suddito del Granduca di Firenze alleato dei Farnese. Si rivolse al Boncompagni di Bologna che lo mandò nel suo feudo di Vignola, nel Ducato di Modena, sotto la tutela degli Estensi . Tornò a Nepi prima che morisse Urbano VIII (29 luglio 1644) e terminasse la guerra di Castro (7 agosto 1644), infatti il 26 maggio Vittoria Bartoli fungeva da madrina alla Cresima di Lucia figlia di Urbano Calderoni e Marcantonio il 7 agosto acquistava una casa in via del Foro (ora corso Giacomo Matteotti) prospiciente la piazza del Duomo. Riprese anche la sua partecipazione nel Consiglio Generale, almeno fin dal 1645; fu di nuovo Priore per il primo quadrimestre del 1648, ma non sembra che portasse a termine il suo mandato; morì infatti dentro lo stesso anno; al momento non è stato possibile precisare la data.
Marcantonio il 28 maggio 1613 sposò Laudonia Vaccari figlia di Maurizio da Anguillara Sabazia e dopo il matrimonio nacquero Maria Agata a Nepi il 5 luglio 1614 e Maria Costanza in data e luogo per ora sconosciuti. Le due figlie scelsero la vita monastica presso le Clarisse del monastero di S. Maria degli Angeli in Nepi (vecchio seminario): Maria Agata il 20 aprile 1634 assumendo il nome di suor Maria Agata Celeste, Maria Costanza l’anno successivo col nome di suor Maria Laudonia. Ricoprirono diversi incarichi nel monastero, compresa la guida dello stesso; Maria Agata in particolare fu “prima cantante”, cioè maestra e guida nel canto liturgico delle monache, finché visse: l’ultima data che si conosce è il 1693.
Laudonia deve essere morta prima del 1624, ma non si conosce né il luogo né la data di morte. Nel periodo che Marcantonio stava a Gallese compare la sua seconda moglie, Vittoria Bartoli, figlia del notaio Simone da Bagnoregio e di Isabella Alberi (Alberici) da Orvieto; e ad Orvieto deve essere nata perchè ogni volta che è nominata nei documenti è detta di Orvieto. Durante lo stesso periodo devono essere nati Francesco circa il 1626 e Giuseppe circa il 1628; in mancanza di documenti le date sono ipotetiche: Francesco nel 1650 era prossimo alla consacrazione sacerdotale, quindi sui 24 anni, Giuseppe nel 1638 aveva dieci anni.

Dopo il ritorno della famiglia a Nepi (1633) nacquero nell’ordine: il 20 aprile 1633 Maria Angelica, il 5 marzo 1635 Alessio Maria, l’11 febbraio 1637 Stefano, il 4 aprile 1639 un altro figlio che nel registro dei battezzati è chiamato Stefano, ma, salvo altri documenti che emergano, dovrebbe trattarsi di Alessandro. Che si può dire? Stefano compie i 25 anni nel 1662 e nel gennaio 1663 entra in possesso della sua parte di eredità; Alessandro li compie nel 1664 e il 20 settembre dello stesso anno entra in possesso della sua parte di eredità.
Dopo la morte di Marcantonio, Vittoria, che aveva assunto la tutela dei minori viventi Stefano, Alessandro, e ancora Giuseppe, sistema il patrimonio di famiglia con la vendita della casa in via Termo Larte, vendita effettuata da Tommaso Petroni designato procuratore da Marcantonio prima della sua morte, e con l’acquisto di un terreno con casa sulle sponde del lago di Monterosi. Il terreno, di Carlo Sigismondo Floridi fu acquistato al prezzo di 520 scudi, ma il proprietario non ricevette un baiocco perché lo stesso terreno era gravato di ipoteche o censi ascendenti alla stessa somma, che Vittoria cominciò a pagare nel 1651. Dopo che Giuseppe ebbe raggiunto i 25 anni, dai documenti di Nepi scompaiono Vittoria Bartoli i due figli Stefano e Alessandro; mentre continuano a comparire Francesco, Giuseppe e le due monache di S. Maria degli Angeli.
Non compaiono mai Maria Angelica e Alessio Maria che devono essere morti in età infantile.

FRANCESCO, frate agostiniano e sacerdote, ha una certa rilevanza nella vita del convento di S. Pietro in Nepi e anche a livello dirigente della Provincia religiosa a cui appartiene. Quanto alla famiglia, più volte risulta impegnato negli interessi comuni, si sostituisce al fratello Giuseppe in atti giuridici ed assume il ruolo principale alla morte di Alessandro nel curare il passaggio dell’eredità ai nipoti cioè a Marco Antonio figlio di Giuseppe e a Vittoria Agata e Maria figlie di Stefano.

GIUSEPPE. Ho già ipotizzato l’anno della sua nascita mentre il padre svolgeva attività a Gallese. Nel 1841 Marcantonio ottenne di passargli il cavalierato di S. Stefano. Dopo la morte del padre nel Consiglio Generale del Comune; esercitò l’ufficio di Priore nel terzo quadrimestre del 1666, nel secondo del 1671; nel 1672 fu Soprastante alle opere pubbliche; di nuovo sarà Priore nel primo quadrimestre del 1673, ed ancora nel 1667 e nel 1680. Probabilmente muore durante l’anno 1681, perché nel 1682 è già consigliere del Comune il figlio Marcantonio.
Giuseppe sposò Angela Flaminia Lupi di Magliano Sabina; il contratto dotale della sposa reca la data del 4 gennaio 1652. Nacquero Marcantonio, non si sa ancora dove, e Maria Lucrezia a Nepi il 23 giugno 1655 che in seguito fu monaca nel monastero di S. Croce, ancora esistente in Magliano Sabina.
Angela Flaminia nell’aprile del 1663 era già morta.

Giuseppe risulta tanto assiduo e stimato come pubblico funzionario, quanto inesperto nella gestione del patrimonio di famiglia. Nel 1673 dovette vendere il terreno sul lago di Monterosi realizzando la somma di 280 scudi: esattamente metà di quanto lo aveva pagato la madre nel 1650. Alla sua morte, il figlio ed erede Marcantonio, trova il patrimonio totalmente ipotecato.

STEFANO. Oltre il battesimo, la tutela assunta dalla madre e la presa di possesso della sua parte di eredità nel 1663, a Nepi non si trovano altri documenti che lo riguardino.
La sua vita si svolse a Mantova; si sposò ed ebbe due figlie, Vittoria Agata e Maria, come già ricordato.

ALESSANDRO. Di lui verrà trattato nel seguito di questa stessa pubblicazione.

MARCANTONIO, figlio di Giuseppe Stradella e di Angela Flaminia Lupi potrebbe essere nato nel 1653, due anni prima della sorella Maria Lucrezia. Nel 1682 subentrò al padre nel Consiglio Generale del Comune, ma fu presto estromesso, quando risultò carico di debiti e col patrimonio in realtà ormai distrutto. Cominciò col vendere una parte della sua casa in via del Foro, prospiciente la piazza del Duomo, per 170 scudi; ma quando l’acquirente, Stefano Ponti, ebbe riscattato le ipoteche, per Marcantonio rimasero solo tre giuli, ossia 30 baiocchi. Tra il 1684 e il 1690 dovette vendere il podere del Torrone per pagare i debiti. Infine abbandonò Nepi, lasciando un suo procuratore per la liquidazione di quanto rimaneva del patrimonio e si trasferì nella vicina Civita Castellana dove si sposò e nel 1700 gli nacque un figlio cui pose nome Giuseppe Egidio.

La vicenda umana del ramo nepesino della famiglia Stradella, iniziata da Fulvio, fratello del Vescovo Alessio, nel 1575, si svolse in un arco di poco più di cento anni. Si può dire che raggiunse l’apice con Marcantonio figlio di Fulvio. I membri che si succedettero parteciparono attivamente al benessere della vita cittadina nel campo sociale e culturale come nel campo religioso e spirituale con la diretta azione pastorale del Vescovo Alessio e la preziosità della vita nascosta in Cristo delle due sorelle Maria Agata e Maria Costanza nel monastero di S. Maria degli Angeli. Si chiuse, con grande amarezza, in Marcantonio pronipote di Fulvio. Ma quella stessa famiglia ha dato al mondo uno dei personaggi più rappresentativi dell’arte musicale dell’epoca barocca: Alessandro Stradella.

NOTA CONCLUSIVA.

– Non ho riportato la documentazione per quanto sopra ho scritto; ma essa si può trovare in abbondanza nell’opuscolo di Carolyn Gianturco “La famiglia Stradella; nuovi documenti biografici”; ed anche nel mio “Alessandro Stradella e gli Stradella a Nepi”.
– Restano ancora molti punti inesplorati: si può ancora lavorare nella ricerca.

 

LA VITA E LE OPERE DI ALESSANDRO STRADELLA

Non sappiamo con chi e dove Alessandro Stradella abbia studiato musica, forse fu a Nepi, vi era qui infatti un organista stipendiato dal comune, o forse il suo primo maestro fu il padre Marcantonio, questi infatti doveva avere interessi musicali dal momento che nel 1609 aveva fatto pubblicare il primo libro dei madrigali di Giovanni Girolamo Kapsberger o forse fu, come ipotizza la Professoressa Gianturco, la sorellastra, suor Maria Agata Celeste, che cantava nel coro del monastero. Probabilmente egli compì una parte dei suoi studi a Bologna e dovette essere rimasto in quella città abbastanza a lungo da esser definito dal notaio che rogò l’atto del 20 settembre 1664 come “signor bolognese”. La sua attività di musicista sembra comunque iniziare nel 1667 a Roma quando l’Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso gli commissiona un oratorio oggi perduto su testo di Giovanni Lotti.
Da questo momento inizia un’intensa attività che lo porta ben presto ai vertici dell’ambiente musicale romano; nel 1668 compone per l’opera comica di Jacopo Melani Il Girello il prologo O di Cocito oscure deità. Nello stesso anno, avvalendosi sempre del poeta Giovan Filippo Apolloni, compone una serenata commissionatagli da Olimpia Adobrandini Pamphili in onore dell’ascesa al soglio cardinalizio di Leopoldo de’ Medici. Altre opere di questo periodo sono i prologhi Con meste luci e Reggetemi non posso più e i trii Spuntava il dì quando la rosa e Di tal tempra è la ferita.
In questi anni la stella di Stradella risplende su Roma, egli è ben introdotto negli ambienti che contano, è il musicista del momento, compone per i Colonna, gli Altieri, i Pamphili e gli Orsini, e infine entra anche nelle grazie della regina Maria Cristina di Svezia. Egli compone prologhi e intermezzi, molti dei quali da eseguirsi nel teatro di Tordinona, il primo teatro pubblico romano, e una gran quantità di opere di carattere religioso, tra tutte la splendida cantata per la notte di Natale, Ah! Troppo è ver.

Nel 1675 il pontefice Clemente X gli concede il titolo di cameriere extra. Tuttavia tanta fama non gli impedisce di trovarsi periodicamente in serie difficoltà economiche, nel 1670 risulta infatti essere in debito per la notevole somma di 7000 scudi.
Nei momenti di difficoltà Alessandro Stradella non disdegna di usare mezzi discutubili per rimpinguare le sue finanze e pagare i debiti: già nel 1667 aveva avuto dei problemi per aver organizzato un matrimonio non gradito alla famiglia dello sposo, la reazione di questa lo costrinse a rifugiarsi presso un convento. Nel 1676 egli, con la complicità del controtenore Giovan Battista Vulpio, ottiene ben 10.000 scudi per aver fatto sposare una donna di dubbia fama, di nascita non nobile e per di più “brutta e vecchia” ad un giovane della famiglia Cybo. Questa volta però i due debbono affrontare le ire del cardinale Alderano Cybo, segretario di Stato. Stradella è quindi costretto ad abbandonare Roma.
Stradella trova rifugio a Venezia, sotto la protezione di Polo Michiel, un nobile veneziano che già da tempo era uno dei più attenti e assidui mecenati del musicista nepesino. Anche a Venezia però Stradella non trova pace, pochi mesi dopo il suo arrivo allaccia infatti una pericolosa relazione con Agnese Van Uffele, amante del potente Alvise Contarini. Con lei fugge a Torino. Per sfuggire alla vendetta del Contarini i due amanti sono costretti a rifugiarsi in convento, Agnese in quello di S. Maria Maddalena, Alessandro in quello di S. Domenico. Sperano poi di rimettere a posto le cose sposandosi, ma è tutto inutile, il Contarini invia alcuni sicari che feriscono gravemente Alessandro.
Ormai neanche Torino è più sicura per lui quindi, una volta guarito se ne va a Genova, siamo nel 1678. Qui Stradella rivive un altro grande momento di creatività, lavora molto, compone per il teatro Falcone le opere La forza dell’amor paterno, Le gare dell’amor eroico, Moro per Amore e, soprattutto, Il Trespolo tutore. Di questi anni è la cantata sacra a sei voci Esule dalle sfere, per le anime del purgatorio, che inizia con un curioso sfogo di Lucifero:

Esule dalle sfere
Poich’indarno bramai l’etereo trono,
Il mio vasto pensier
A restringer tra l’ombre a stretto io sono;
Ma tanti oltraggi e tanti
Lasciar invendicati io già non voglio.
Questi spirti purganti
Destinati a calcar quei seggi istessi
Onde i seguaci miei furon depressi,
Bersaglio de’ miei sdegni,
Delle vendette mie portino i segni.
(testo di Pompeo Figari)

Altre opere notevoli del periodo genovese sono Si apra al riso, cantata per la notte di Natale, e l’oratorio La Susanna, composto su richiesta del duca Francesco II d’Este, infine la serenata Il Barcheggio, composta in occasione del matrimonio di Carlo Spinola e Paola Brignole, eseguita nel porto di Genova.

La sera del 25 febbraio 1682, mentre il musicista rientra in casa in compagnia di un domestico, viene assalito da un sicario e ferito mortalmente da tre coltellate.

Genova profondamente colpita da questo atroce delitto tributa al compositore nepesino grandi onori, vengono offerte subito un gran numero di messe per la salvezza della sua anima e la sua salma è inumata nella chiesa più bella della città, S. Maria delle Vigne.
Il Senato e il Minor Consiglio della Repubblica di Genova s’impegnano immediatamente nelle indagini, nulla di certo però si saprà mai e sulla morte di Alessandro Stradella scende una coltre di mistero, illuminata solo dal bagliore di qualche sospetto.

Alessandro Stradella non lascia molto ai suoi eredi, qualche capo di vestiario prezioso e qualche oggetto d’oro, stranamente nell’inventario delle sue cose non appaiono né partiture musicali né strumenti, se si eccettua un mazzo di corde per clavicembalo. Il fatto è che prima dell’arrivo del notaio musiche e strumenti erano stati spostati, probabilmente con la complicità di frà Francesco Stradella, giunto a Genova come procuratore testamentario degli eredi, cioè Marcantonio, figlio di Giuseppe, che ebbe la metà dell’eredità, e Vittoria Agata e Maria, figlie di Stefano, che ebbero l’altra metà. Molte delle partiture furono offerte dal nipote di Alessandro al duca di Modena.
Questa soluzione non accontentò tutti, infatti nel 1686 la vedova di Stefano Stradella si lamenta per l’esiguità dell’eredità ricevuta dalle figlie; ottiene solo un parziale risarcimento, in cambio di alcuni abiti riceve altri oggetti e tre liuti completi di astuccio. Il possesso di questi tre liuti dimostra come Stradella fosse anche un virtuoso di questo strumento e, anzi, spiega perché “in alcune composizioni egli richieda espressamente il liuto, in un periodo in cui questo strumento generalmente non veniva indicato in modo specifico” (C. Gianturco, La notte in Cantata).

 

TASTAR DE CORDE
Strumenti e tecniche della liuteria antica

Nel XVI secolo lo strumento di gran lunga più usato, sia nell’esecuzione della musica colta che popolare, è stato il liuto e gli altri strumenti da esso derivati. Sul liuto grandi musicisti come Giovanni Pierluigi da Palestrina erano soliti comporre la loro musica vocale, approfittando allo stesso tempo della sua somiglianza timbrica con la voce umana, considerazione che era alla base della stima che il liuto godeva tra musicisti ed ascoltatori, e delle sue spiccate possibilità polifoniche.
Oltre a ciò non bisogna poi dimenticare la produzione liutistica vera e propria, infatti le composizioni di Francesco da Milano, Vincenzo Capirola, Simone Molinaro, Vincenzo Galilei o John Dowland, solo per citarne alcuni, mostrano ancora oggi tutta la loro bellezza formale e il loro valore musicale.
Questo strumento si adattava dunque perfettamente, per le sue doti di limpidezza, agilità e varietà timbrica, ad esprimere gli ideali del nostro Rinascimento, trasmettendone con immediatezza la tensione contemplativa e nello stesso tempo emotiva e sensuale; quello che è oggi forse il più grande interprete del liuto rinascimentale, Paul O’Dette, in un’intervista di alcuni anni fa si è espresso con chiarezza su questo argomento: “Mi pare che la musica italiana, a cominciare dal principio del ‘500, abbia non solo il senso d’un invito alla contemplazione; non è semplicemente bella e piacevole, ma ha il fine di manipolare le emozioni degli ascoltatori; è, in altri termini, espressiva. Questa è, di solito, la definizione da manuale della musica barocca; io però sento in questa maniera anche la musica rinascimentale italiana“.
Il liuto tuttavia, pur avendo raggiunto un altissimo livello, in questo secolo e nel successivo, nella civiltà musicale dell’Occidente, proveniva da molto lontano, si era anzi affacciato nel nostro mondo relativamente tardi, intorno al XII secolo, giungendo in Occidente grazie allo scontro-scambio tra il mondo occidentale e quello arabo provocato dalle Crociate.
Le origini del liuto però sono molto più antiche, questo strumento si è sviluppato nell’ambito di molte culture, subendo diverse evoluzioni in base alle particolari esigenze di fronte alle quali si è venuto a trovare. In Occidente ha subito un progressivo aumento di corde, passando dalle quattro o cinque corde raddoppiate del liuto medievale, diretta emanazione di quello arabo, alle ventisette dell’arciliuto, usato dalla fine del ‘500; Il liuto arabo, al ud cioè “il legno”, tuttora utilizzato ha più o meno la stessa forma del nostro liuto rinascimentale ed era montato con quattro o cinque corde singole composte da fili di seta o, dall’VIII sec. d. C., di budello. Il manico dello strumento era diviso in sette tasti. Questo strumento giunse dunque in Europa grazie ai larghissimi, anche se altamente conflittuali, rapporti instaurati tra il mondo occidentale e quello arabo; e non giunse da solo, ma insieme ad una complessa ed evoluta cultura musicale.
Una evidente influenza araba si può infatti riscontrare, ad esempio, in una delle opere più caratteristiche del medioevo, Las Cantigas de Santa Maria di Alfonso X El Sabio re di Castiglia: a tale riguardo si è parlato anche di un diretto uso di melodie arabe, tuttavia tali ipotesi sono ancora tutte da dimostrare e chiarire, anche perché gli Arabi non mettevano per iscritto la loro musica. Quello che è certo è che le melodie delle Cantigas solo in pochi casi sembrano rientrare nell’ambito dei modelli strutturali del canto occidentale e non sono assolutamente analizzabili attraverso il sistema modale che è alla base della musica occidentale. Una forte influenza della melodia araba è dunque almeno ipotizzabile.
Il liuto però non arrivò in Occidente da solo, gli Arabi ci trasmisero infatti altri strumenti come la vihuela e la chitarra. I due strumenti erano in realtà molto simili e la comune origine si perde nella notte dei tempi, abbiamo infatti testimonianze molto antiche sull’esistenza di strumenti a fondo piatto con la caratteristica forma ad otto della cassa armonica: un bassorilievo di Tebe risalente alla XI o XII dinastia (3762-3703 a. C.) ci mostra infatti, accanto a strumenti con cassa armonica ovale e convessa, strumenti con la cassa a forma di otto e manico lungo; una testimonianza analoga risale al quinto millennio a. C., ad Euyuk in Cappadocia. Tutti questi strumenti sarebbero stati trasmessi dagli Egiziani ai Persiani e da questi agli Arabi.

La vihuela è uno strumento a sei cori molto simile alla chitarra, usatissimo in Spagna per tutta la prima metà del XVI secolo; era denominata vihuela de mano per distinguerla dalla vihuela de arco.

La chitarra, denominata in arabo kuitra, si caratterizza nel ‘500 per le sue dimensioni ridotte: per tutto il XVI secolo montò solo quattro cori (tre corde doppie ed una, la più acuta, singola), fu conosciuta in tutta Europa come guiterne, guiterre, guitarra o anche come guitarra morisca o chitarra saracena. Più tardi, nel ‘600 verrà aggiunto un coro basso supplementare, per cui la chitarra fino alla fine del XVIII secolo avrà 5 cori, quattro doppi e il primo generalmente singolo.

Un altro elemento caratteristico della chitarra è il fondo, generalmente convesso, anche se non mancano esemplari a fondo piatto.
I due esemplari di chitarra qui esposti sono appunto una chitarra rinascimentale a 4 cori e una chitarra barocca a 5 cori, entrambi con fondo convesso.
Il liuto dopo esser giunto presso di noi subì una serie di modifiche per adattarsi all’evoluzione della musica occidentale: dalle quattro o cinque corde singole del liuto arabo si passerà infatti ad un numero analogo di corde però raddoppiate tra il XIV e il XV secolo. Questo tipo di liuto, usato nel medioevo, veniva in genere suonato con un plettro, di solito una penna d’oca. E’ da notare che fino a tutto il XIV secolo si usarono liuti in tutto e per tutto simili a quelli arabi, cioè con quattro o cinque cori formati da una corda singola.
Già nella seconda metà del XV secolo si hanno testimonianze di liuti a sei cori, forma che divenne canonica nel XVI secolo, modificatasi poi a partire dalla metà del secolo solo perché altri cori bassi si aggiunsero ai sei fondamentali che erano denominati tradizionalmente canto, sottana, mezzana, tenore, bordone e basso.
Dalla fine del ‘500 si ebbero poi ulteriori modificazioni che dettero vita a strumenti con un gran numero di bassi come l’arciliuto e la tiorba, strumenti che arrivarono ad avere anche quattordici cori.
In sostanza, le esigenze della nuova musica, soprattutto la prassi del basso continuo, richiedono strumenti più grandi, in grado di realizzare l’accompagnamento armonico della linea monodica. Si sviluppano così liuti caratterizzati da un gran numero di contrabbassi e da una cassa armonica più grande rispetto a quella del normale liuto rinascimentale. Non di rado ci si trova di fronte a modifiche strutturali su strumenti già esistenti, ad esempio liuti bassi a sei o sette cori, che vengono così modificati con l’aggiunta di altri bassi, fino ad arrivare a dieci, undici, tredici o quattordici cori, spesso, in questi ultimi due casi, grazie all’aggiunta di tratte supplementari.
Non tutti naturalmente erano d’accordo con la creazione di questi strumenti, Vincenzo Galilei nel Fronimo critica aspramente quella che considera una moda effimera.
Al contrario, un altro grande liutista della prima metà del ‘600, Alessandro Piccinini, si è vantato di esser stato l’inventore dell’arciliuto.
Come che sia però, il liuto, dalla fine del ‘500 è essenzialmente uno strumento che va da dieci a quattordici cori. Simone Molinaro nelle sue Intavolature di liuto, pubblicate nel 1599, prevede l’uso di un liuto a 8 cori, Giovanni Girolamo Kapsberger scrive per un liuto a 10 cori (1612), Alessandro Piccinini (1632) usa un liuto a 14 cori, definito perciò arciliuto.
Questo tipo di liuto poteva avere una tratta molto lunga, e in questo caso i bordoni erano corde singole, oppure corta e in tal caso montava corde anche per i bordoni. Un esempio di arciliuto a tratta corta è quello qui esposto, opera del liutaio romano Carlo Angelo Cecconi e ispirato ad un modello del liutaio veneziano Matteo Sellas operante nella metà del XVII secolo, caratterizzato da sette cori tastati e sette non tastati.
Esistono anche liuti detti attiorbati, cioè liuti che presentano accanto al primo cavigliere un secondo cavigliere che ospita i bordoni.

Un altro strumento importante per la musica barocca è il chitarrone o tiorba, strumento che appare per la prima volta durante l’esecuzione degli Intermedi per le nozze di Ferdinando I de’ Medici e Cristina di Lorena nel 1589 a Firenze.
Il chitarrone o tiorba ha la forma di un grosso liuto, caratterizzato, come d’altra parte anche l’arciliuto, da una lunga tratta che, partendo dal primo cavigliere, ha alla sua sommità un secondo cavigliere, la sua invenzione è attribuita al liutista Antonio Nardi detto il Bardella che operò a Firenze al servizio dei Medici sul finire del XVI secolo.
Al contrario degli arciliuti, che mantenevano inalterata l’accordatura rinascimentale delle sei corde tastate (sol, re, la, fa, do, sol), il chitarrone, vista l’impossibilità di mantenere l’accordatura delle corde più acute a causa della maggiore lunghezza vibrante della corda, ha una sua caratteristica accordatura rientrante, per cui le prime due corde sono accordate un’ottava sotto rispetto all’accordatura classica.
Di questo strumento esistevano varie tipologie, le più frequentemente usate erano la tiorba padovana, dal corpo piccolo, ma con otto corde tastate e otto bordoni (corde non tastate), e la tiorba romana o chitarrone, caratterizzata da un corpo molto grande e da sei corde tastate e otto bordoni. Per ottenere un suono più nitido la tiorba o chitarrone montava corde singole anziché doppie, in genere corde di budello ma non erano infrequenti anche corde di metallo, apprezzate per la dolcezza del loro suono.
Intanto dall’inizio del XVII secolo in Francia e in Germania si comincia ad usare un liuto con un’accordatura diversa da quella italiana o rinascimentale, un’accordatura in re minore (re, fa, la, re, fa, la). Questo liuto, detto liuto tedesco, monta le prime due corde singole e le altre doppie, ed ha inizialmente 11 cori per giungere poi a 13.

P.A.

Alcuni dei più grandi liutai che operarono tra il XVI e il XVII secolo

Magno Dieffopruchar: liutaio d’origine tedesca attivo a Venezia nella seconda parte del XVI secolo, il suo nome d’origine è Magnus Tieffenbrucker. Gli strumenti provenienti dal suo laboratorio che sono giunti fino a noi sono datati dal 1576 al 1610.

Hans Frei: attivo a Bologna nella prima parte del XVI secolo.

Georg Gerle: attivo ad Innsbruck tra il 1569 e il 1589.

Michielle Harton: attivo a Padova alla fine del XVI secolo, allievo di Leonardo Tieffenbrucker. Un suo liuto è anche raffigurato in un quadro di Evaristo Baschenis.

Johann Christian Hoffmann: attivo a Lipsia, nato nel 1683 e morto nel 1750. Fu un costruttore di violini e di liuti, ed ebbe tra i suoi clienti anche Johann Christian Bach.

Martin Hoffman: attivo a Lipsia, nato nel 1653 e morto nel 1719. Fu costruttore di violini, viole da gamba e liuti.

Laux Maler: attivo a Bologna dal 1518 fino alla morte, avvenuta nel 1552. Nel 1530 formò una società di maestri liutai e di allievi che produsse un gran numero di strumenti.

Matteo Sellas: attivo a Venezia nella prima metà del XVII secolo, anch’egli di origine tedesca, il suo vero nome era Mathaus Seelos. E’ il liutaio di cui sopravvivono forse il maggior numero di strumenti, tutti di grande qualità e caratterizzati dalla scelta di materiali pregiati come tartaruga, avorio e madreperla. Costruì tiorbe, arciliuti e chitarre. Quella dei Sellas fu una famiglia di liutai piuttosto numerosa, attiva fino al 1720. L’altro grande nome della famiglia fu Giorgio Sellas, attivo anch’egli nella prima metà del XVII secolo a Venezia.

Wendelio Venere: attivo a Padova tra il 1560 e il 1620. D’origine tedesca il suo vero nome era Wendelin Tieffenbrucker. Della sua produzione sopravvivono un gran numero di tiorbe e liuti.

Cristoforo Heberle: attivo a Padova tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. Secondo quanto afferma Alessandro Piccinini fu proprio l’Heberle il liutaio al quale lo stesso Piccinini propose la costruzione, nel 1594, di un liuto con una tratta supplementare, detto poi arciliuto.

Voboan: fu una famiglia di liutai parigini che si occupò prevalentemente della costruzione di chitarre. I nomi più noti sono René, che fu attivo tra il 1606 e il 1671 circa, che fu anche il fondatore del laboratorio, il fratello Alexandre, morto verso il 1628 e i due figli di René Nicolas Alexandre, morto dopo il 1682 e Jean, morto dopo il 1692.

Magno Graill: attivo a Roma nella prima metà del XVII secolo. Lavorò probabilmente per un certo tempo nella bottega con Matheus Buchenberg, insieme al quale fu uno dei principali esponenti della scuola romana, specializzatasi nella costruzione di chitarroni.

 

Le fasi della costruzione del liuto

Una delle principali caratteristiche del liuto, è il fondo o guscio concavo, per la sua costruzione si può utilizzare una forma piena sulla quale vengono sagomate e adattate le doghe. I legni utilizzati per la costruzione del guscio sono i più disparati, in genere si usa l’acero, il cipresso, il melo, il pero, il frassino e il tasso, legno bicolore che permette così di dare un particolare effetto cromatico al fondo, caratterizzato da doghe formate da una parte chiara e una più scura. Possono però anche essere usati altri materiali, legni esotici, come l’ebano o materiali non lignei come l’avorio. Le doghe vengono piegate portandole a contatto con una superficie metallica curva riscaldata. Tra una doga e l’altra può essere incollato un filetto, cioè un listello di legno o di osso dello spessore di circa uno/due millimetri. L’osso o l’avorio si usano generalmente per gusci di ebano.
La parte posteriore del guscio è caratterizzata da una controfascia interna sulla quale confluiscono le estremità delle doghe per esservi incollate, mentre, una volta terminato il guscio, questa parte viene definitivamente fissata grazie ad una fascia esterna che serve anche a coprire il punto di confluenza delle doghe stesse sulla controfascia.
La parte anteriore è chiusa da uno zocchetto sul quale vengono ugualmente incollate le estremità opposte delle doghe. Lo zocchetto deve poi subire un taglio trasversale per poter alloggiare il manico. Una volta terminato il guscio, questo viene sfilato dalla forma, ripulito e preparato per l’incollaggio del manico.
Il manico dello strumento è ricavato da un blocco di abete o acero opportunamente sagomato; in genere il manico viene rivestito da una foglia di ebano, tuttavia gran parte dei liuti barocchi sono privi di tale rivestimento, che può essere omesso nei liuti a 6 cori.
Il piano armonico è rigorosamente in abete, deve essere accuratamente rasato e, soprattutto, deve avere spessori differenti, generalmente minori in corrispondenza delle corde più basse, maggiori in corrispondenza di quelle più acute; gli spessori variano da due ad un millimetro. Nella parte superiore del piano armonico vi sono una o più rosette intagliate, elemento essenziale per la fuoriuscita dei suoni, mentre nella parte inferiore viene incollato un ponticello fatto di acero, o comunque di altri legni duri, e provvisto nella parte superiore di una placca di ebano.
Una volta terminate queste operazioni si procede all’incollaggio del manico al guscio, supportato anche da un chiodo.
Un altro elemento caratteristico del liuto è il cavigliere, cioè l’alloggiamento per i piroli che servono a tendere le corde: per questo elemento si scelgono generalmente legni duri, come il faggio, che possono poi essere rivestiti con lo stesso legno delle doghe o con sfoglie di ebano. A questo punto è necessario praticare uno scasso nell’estremità libera del manico per poter alloggiare il cavigliere, che forma così con il manico un caratteristico angolo retto. Sulla parte superiore del manico deve poi essere applicata una tastiera il cui spessore si aggira intorno ai due millimetri.
La superficie interna del piano armonico viene completata tramite l’ancoraggio di listarelle di legno chiamate catene, il cui scopo è quello di dare maggiore resistenza al piano armonico e di suddividerlo in varie sezioni vibranti, determinanti per la qualità sonora dello strumento. Per quanto concerne il numero delle catene esso può variare, Marin Mersenne nell’ Armonie universelle indica però una regola ben precisa: viene diviso il piano armonico in otto parti uguali, sulla quinta a partire dal fondo viene intagliata la rosetta, sopra di essa, sulla sesta e settima divisione vengono incollate due catene, sull’ottava inizia il manico. La rosetta viene poi rinforzata con altre catene più piccole, mentre poi altre catene vanno incollate sulla quarta, terza e seconda divisione. Il settore posteriore del piano armonico, le ultime due sezioni, viene inoltre diviso in altre tre sezioni, sulla seconda delle quali va incollato il ponticello.
A questo punto il liuto può essere chiuso, dopo di che si passa alle rifiniture, come, ad esempio, il filetto incollato intorno al piano armonico e i baffetti che servono ad abbellire la congiunzione tra la tastiera e il piano armonico stesso.
Quando il liuto è finalmente completo può essere verniciato, ad esclusione del piano armonico se è rivestito di ebano.
Sullo strumento finito vengono quindi montate corde di nylon, mentre una volta si montavano corde di budello, che erano generalmente ricavate da un’accurata lavorazione delle interiora di animali. Per completare lo strumento inoltre è necessario posizionare all’estremità della tastiera un capotasto, fatto di osso o di un legno molto duro, provvisto degli alloggiamenti delle corde e, infine, lungo il manico vengono posti dei legacci, sempre di budello, che hanno la funzione di tasti mobili. La mobilità dei tasti, consentita anticamente, deve consentire al liutista di adattarsi agli strumenti non soggetti al temperamento equabile.

P.A.

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