… e la città ancora bruciava ….

… e la città ancora bruciava ….  Bicentenario del sacco francese dic-98

“…E LA CITTA’ ANCORA BRUCIAVA…”
2 dicembre 1798 – 2 dicembre 1998
A DUECENTO ANNI DAL SACCO FRANCESE

Anno 1 Numero 1 Dicembre 1998

Testi di: GREGORI COSTANTINO, ANTONINI PAOLO, CONCORDIA RENATO

Il 12 frimaio del VII anno della Rivoluzione un distaccamento dell’Armata d’Italia agli ordini del Gen. Kellermann viene accolto da una scarica di fucileria dalle mura di Nepi.
Ciò che accadrà nelle ore successive assomiglia drammaticamente a tanti altri episodi avvenuti in quegli anni di fuoco; i soldati repubblicani invadono la cittadina, si danno al saccheggio, passano a fil di spada tutti gli uomini che incontrano, sia quelli che vengono trovati con le armi in mano che quelli che vengono presi disarmati. L’episodio più cruento ha come teatro il Duomo della città.

I cittadini che, per antica consuetudine, si rifugiano in Chiesa, luogo consacrato e quindi intangibile dalla violenza degli uomini e dunque sicuro, trovano una morte atroce tra le fiamme, i colpi di sciabola, le scariche di fucileria e perfino alcuni colpi di cannone.
Quando la rabbia francese si sarà placata non resterà altro che un paese distrutto e incendiato, cosparso di morti e feriti. In un rapporto freddo e distaccato il comandante di battaglione Lacroix scrive che del paese non restavano dopo poche ore, che macerie, e della popolazione “que des femmes et des enfants”.

In quest’ultima agghiacciante annotazione è tutto l’orrore di quel giorno, un giorno indimenticabile, tristemente indimenticabile. E’ non sarà infatti dimenticato, quel giorno resterà come un velo di tristezza nei ricordi di tutti i nepesini che verranno. Questa ricostruzione, in gran parte inedita, svela e ricompone in tutta la sua complessità un quadro storico.
Negli avvenimenti del 2 Dicembre 1798 si rispecchia e si esemplifica in tutta la sua drammaticità, ciò che in quegli anni stava accadendo nell’Italia invasa dalle truppe francesi. Vi si ricompone infatti tutta la storia del conflitto tra un’epoca che era ormai condannata alla fine e un nuovo ordine, una nuova era, per molti inconcepibile e incompresa, che si faceva largo con la forza delle idee e sempre più spesso con quella delle armi.

La borghesia, dopo aver tentato di scardinare con le idee illuministe le strutture dell’ancien régime, dopo la breve stagione dell’assolutismo illuminato, momentanea alleanza tra la borghesia e la monarchia, comprende che l’unico modo per raggiungere il potere è ormai solo la rivoluzione. La rivoluzione coglie l’occasione da un periodo di grandi difficoltà per la Francia. Il 14 luglio 1789 è la logica conclusione di un lungo processo che ha visto la borghesia in lotta per cancellare le strutture feudali che per secoli hanno caratterizzato la società d’ancien régime.

Non per nulla una delle prime decisioni dell’Assemblea nazionale è quella di abolire i diritti feudali. Da qui si passa immediatamente allo smantellamento della società di antico regime: fra il 4 e l’11 agosto vengono aboliti la venalità degli uffici i privilegi fiscali e giuridici dell’aristocrazia e infine le decime ecclesiastiche. L’Assemblea costituente non tarda ad occuparsi dell’organizzazione ecclesiastica. Con l’atteggiamento tipicamente utilitaristico della classe borghese un decreto del 13 febbraio 1790 chiude conventi e monasteri che non svolgono attività socialmente utili.

Al riordinamento del clero non è estranea neanche una antica tradizione della chiesa francese, quella tradizione gallicana che già tante volte l’aveva portata a opporsi, complice anche il potere reale, al centralismo romano. La costituzione civile del clero mira infatti a dare alla chiesa una organizzazione più democratica, ma soprattutto si vuole creare un legame più stretto tra il clero e il nuovo sistema politico, eliminando l’ingerenza del papa romano con l’abolizione dei suoi tradizionali poteri giurisdizionali. Il clero si divide quindi tra preti costituzionali e refrattari, quelli che non accettano la riforma.

L’azione di smantellamento della struttura ecclesiastica viene portata a termine con la confisca e la vendita dei beni ecclesiastici. Anche questa è una questione piuttosto antica, i sovrani illuministi (primo fra tutti l’imperatore d’Austria Giuseppe II) avevano già tentato di andare incontro alla volontà di razionalizzazione dell’economia agraria espressa dalla borghesia attraverso un massiccio attacco alla cosiddetta “manomorta ecclesiastica” cioè la proprietà delle istituzioni ecclesiastiche, vasti possedimenti generalmente sfruttati in modo tutt’altro che razionale.

L’assemblea nazionale, vista le difficoltà economiche in cui versa la neonata repubblica, provvede immediatamente alla vendita dei beni ecclesiastici; vengono emessi buoni del tesoro, gli assegnati, che ben presto diventano veri e propri biglietti di banca, emessi per un valore nettamente superiore a quello degli stessi beni ecclesiastici espropriati, andando così ad aggravare l’inflazione che è già sui livelli di guardia.
La rivoluzione si presenta come un cambiamento radicale rispetto al passato, i nuovi governanti vogliono mostrare con evidenza che quella che è iniziata è una nuova era.

Carico di significati in tal senso è il calendario rivoluzionario che va a sostituire il vecchio calendario gregoriano.
Nel nuovo calendario c’è tutta l’evidenza di un mondo in totale rottura con il passato; la rivoluzione cambia in tal modo anche la quotidianità dell’uomo, modificando radicalmente ciò che da sempre aveva guidato e scandito i suoi giorni. Il calendario rivoluzionario non si basa infatti sulla circoncisione di Cristo, presenza fino ad allora centrale nella vita e nel tempo degli uomini, ma sulla proclamazione della Repubblica.

Il calendario viene infatti adottato il 24 novembre 1793, ma il suo inizio viene retrodatato al giorno della proclamazione della Repubblica, il 22 settembre 1792. L’anno inizia quindi il 22 settembre e si snoda lungo 12 mesi di 30 giorni ciascuno. Per raggiungere i 365 giorni (o i 366 negli anni bisestili) al 12 mese, fruttidoro, vengono aggiunti 5 o 6 giorni. A ciascun anno, inoltre, si dà un numero ordinale a partire dal 22 settembre 1792 (Anno I, Anno II ecc.). I nuovi mesi sono Vendemmiaio, Brumaio, Frimaio, Nevoso, Piovoso, Ventoso, Germinale, Florile, Pratile, Messidoro, Termidoro e Fruttidoro.

AUTUNNO
Vendemmiaio
Brumaio
Frimaio


mese della vendemmia
mese della nebbia
mese del freddo

22 settembre – 21 ottobre
22 ottobre – 20 novembre
21 novembre -20 dicembre
INVERNO
Nevoso
Piovoso
Ventoso

mese delle nevicate
mese delle piogge
mese del vento

21 dicembre – 19 gennaio
20 gennaio – 18 febbraio
19 febbraio – 20 marzo
PRIMAVERA Germinale
Fiorile
Pratile

mese della germogliazione
mese della fioritura
mese dei prati in fiore

21 marzo – 19 aprile
20 aprile – 19 maggio
20 maggio – 18 giugno
ESTATE Messidoro Termidoro Fruttidoro

mese del raccolto
mese del caldo
mese dei frutti

19 giugno – 18 luglio
19 luglio – 17 agosto
18 agosto – 21 settembre

La complessa situazione politico militare profilatasi nel 1796 vede il Direttorio costretto a basare il suo potere sempre più sull’esercito. Dopo i trattati di pace con Olanda, Spagna e Prussia, stipulati nel 1795, resta ancora la pressione dell’Austria e dell’Inghilterra.
L’Armata d’Italia con il generale Schéren aveva avuto fino a quel momento solo il compito di alleggerire la pressione sul fronte del Reno, le cose cambiano con il nuovo comandante, Napoleone Bonaparte. Napoleone rianima l’armata ormai stanca e ridotta a soli 35.000 uomini. Con lui il fronte italiano acquista un ruolo di primo piano.

Il Direttorio non pensa più ad esportare la rivoluzione, ora la guerra è una guerra di conquista, e in tal modo si risolve anche il più grave problema dell’esercito rivoluzionario, la mancanza di un organico sistema di rifornimenti.
In un proclama alle sue truppe Napoleone scrive: “Soldati, siete nudi, mal nutriti, ma io voglio condurvi nelle pianure più fertili del mondo. Ricche province, grandi città saranno in vostro potere, vi troverete onore, gloria e ricchezza…”. Viene sconfitto Vittorio Amedeo III di Savoia, il Regno di Sardegna con la pace di Parigi del 15 maggio 1796 perde Nizza e la Savoia. Gli Austriaci sono battuti al ponte di Lodi; il 14 maggio il generale Masséna entra a Milano, il giorno successivo vi entra trionfalmente Napoleone.

Solo lo Stato Pontificio sembra volersi opporre alle armate francesi. Il 23 giugno viene occupata Bologna; il papa deve accettare l’armistizio e poi la gravosa pace di Tolentino, è il 19 febbraio del 1797. Restano in mano ai Francesi Bologna, le Legazioni, Ferrara e un presidio militare ad Ancona.
Napoleone, instancabile, attacca anche il Granducato di Toscana. Gli Austriaci sono ancora battuti a Castiglione, Bassano, Arcole e Rivoli. L’Austria è ormai in ginocchio, Napoleone penetra nel suo territorio fino a Leoben; si conclude la guerra con la pace di Campoformio, il 17 ottobre 1797. Il Belgio e la Lombardia passano alla Francia.

L’occupazione francese appare subito ambigua, da una parte i Francesi sembrano non aver mutato l’antica politica basata sull’oppressione e lo sfruttamento dei popoli più deboli. usati nelle trattative come semplice merce di scambio, dall’altra si nota anche la volontà di esportare le nuove leggi e gli ordinamenti della Francia rivoluzionaria. Alla fine del 1796 si formano le repubbliche Transpadana (in Lombardia) e Cispadana (a Modena, Reggio, Bologna e Ferrara), che si fondono poi nella Repubblica Cisalpina nel luglio del 1797.

Nel dicembre dello stesso anno a Roma, nel corso di una manifestazione popolare, viene ucciso il generale francese Duphot; il generale Louis Berthier entra in città con le sue truppe il 15 febbraio 1798, proclama la Repubblica romana, depone il papa Pio VI, considerato un semplice capo di stato, e lo invia in esilio in Toscana. Napoleone lascia l’armata d’Italia al generale Championnet e prende il comando di una spedizione in Egitto che ha lo scopo di interrompere le vie commerciali tra l’Inghilterra e l’India. Dopo la sconfitta di Abukir però egli resta bloccato con le sue truppe in Egitto; ne approfitta immediatamente il Regno di Sicilia, che tenta un contrattacco.

Le truppe borboniche dopo qualche iniziale successo sono costrette a ripiegare. Alla fine del novembre del 1798 il generale Macdonald è attestato a Civita Castellana, mentre le truppe del generale Kellermann manovrano nel territorio di Nepi.

Repubblica Romana (vedere legge 22 germinale 1798) (Nepi sotto Civita Castellana)

Lo Stato in questo periodo viene diviso in otto Dipartimenti: Metauro (Ancona), Musone (Macerata), Tronto (Fermo), Trasimeno (Perugia), Clitunno (Spoleto), Cimino (Viterbo), Tevere (Roma), Circeo (Anagni). I Dipartimenti a loro volta sono suddivisi in Cantoni e questi ultimi in Municipalità. I Comuni la cui popolazione va da 10.000 a 100.000 abitanti vengono costituiti in Municipalità, rette da sette Edili e un Presidente della Municipalità; i Comuni con meno di 10.000 abitanti vengono uniti in una unica Municipalità, nella quale ogni Comune viene rappresentato da un Edile. Neanche Roma sfugge alle forbici francesi, la città viene divisa in tre Municipalità, ciascuna delle quali rappresentata da sette Edili, mentre l’intera città viene amministrata da un Burò centrale formato da tre Grandi Edili.

Per inoltrarci nel racconto degli eventi che colpiscono Nepi il 2 dicembre 1798, ci caliamo nel mezzo di frenetiche manovre di stampo strettamente militare. Momenti concitati che scaraventano la nostra città in “prima linea” dove si fronteggiano due eserciti: quello francese dell’Armata Romana e quello Napoletano.
Nell’estate 1798 l’Ammiraglio inglese Orazio Nelson sconfigge Napoleone nella Campagna d’Egitto, soggiorna a Napoli ove incita Re Ferdinando I ad attaccare la Repubblica Romana. Il 27 novembre 1798, sotto la pressione delle truppe napoletane, la Repubblica Romana cade e, il Governatore di Roma, Generale Macdonald evacua la città. Uscendo da Piazza del Popolo divide i suoi uomini in due colonne: la prima percorre la Flaminia verso Rignano; la seconda, seguendo la via Cassia chiamata Strada di Viterbo, attraversa La Storta, Baccano, Nepi. Dirigendosi verso Civita Castellana, le due colonne radunano i soldati dislocati sul territorio.

Gli obiettivi sono: difendere il Ponte Felice di Borghetto, formare una linea difensiva contro l’avanzata dell’esercito napoletano ed attendere i rinforzi già richiesti. I Francesi, infatti, in base alle informazioni in loro possesso, temono una avanzata dei Napoletani verso nord.
La divisione di Macdonald può contare ora su sei/settemila uomini e una dozzina di cannoni. Il Generale Championnet, Comandante Supremo dell’Armata di Roma, fissa il suo quartiere generale a Terni; nello stesso giorno il popolo di Viterbo insorge al grido di “Viva Santa Rosa”. I soldati francesi si ritirano a Vetralla.

Macdonald, fissato il Quartier Generale a Civita Castellana, per evitare sorprese da parte dei nemici, invia due avanguardie nelle retrovie: una a Rignano, agli ordini del Comandante La Hure, l’altra a Nepi agli ordini del Generale Kellerman col compito di sorvegliare la Strada di Viterbo.

Alcuni emissari, e probabilmente soldati isolati delle truppe napoletane, sono in questi convulsi giorni a Nepi (secondo il Canonico del Duomo sono in numero di quaranta); qui raccontano la caduta di Roma e la rapida avanzata verso nord del Generale Von Mack capo dell’esercito napoletano. Dalle loro parole i Nepesini intravedono la possibilità di ribellarsi contro l’occupazione francese. Le condizioni del tempo freddo e piovoso e gli scarsi rifornimenti pesano sulle truppe francesi; chiedono insistentemente l’invio di viveri. La situazione è talmente critica da costringere Macdonald ad imporre il seguente ordine del giorno: “Dans la situation critique où se trouve la division, il importe que les “bons militaires” s’opposent au pillage des denrées, sans quoi il sera impossible d’assurer les subsistances”.

Ma in seguito ordinerà addirittura la requisizione di tutto il necessario sui territori occupati: “Câchez de vivre sur le terrain que vous occupez par tous le moyen qui sont en votre pouvoirs. Frappez de requisitions tous ce qui vous avoisinne sous peine d’execution militaire”. Il pesante accparramento penalizzerà le già provate popolazioni. Secondo le fonti francesi l’insofferenza verso i propri soldati sfocia in moti insurrezionali isolati ed insistenti in tutto il territorio della Repubblica Romana. Il Generale Macdonald definisce gli insidiosi contadini “…assai più bravi, più mobili e temibili dei Napoletani”.

Il Maresciallo di Campo Metsch, con una colonna napoletana di circa 5.000 uomini, entra a sorpresa a Magliano insinuandosi tra la sabina e il versante di Civita Castellana occupato dai francesi. È così posto sotto minaccia il ponte di Borghetto, unico punto disponibile a Macdonald per unirsi al grosso dell’Armata di Championnet. A questo punto Macdonald richiama i due presidi di Nepi e Rignano e, con il resto della Divisione, rioccupa Magliano. Nella notte, ad operazione conclusa, ordina a La Hure e Kellerman di rioccupare le loro postazioni di Rignano e Nepi.Intanto a Nepi i precipitosi movimenti dei francesi hanno causato comprensibile agitazione; tra stupore e incertezze ci si interroga sul da farsi.

Il mattino del 2 dicembre 1798, le vedette appostate sulla torre borgiana annunciano il ritorno dei Francesi dalla strada di Castel Sant’Elia. I Nepesini, schierati sulle mura nord, sopra Porta Falisca, impediscono al Generale Kellerman di rientrare in città; con un fitto fuoco di moschetti attaccano la colonna francese e causano un imprecisato numero di vittime ( 5 secondo resoconti militari francesi, 100 secondo il Canonico della Cattedrale). Dopo un iniziale smarrimento il maggior potenziale bellico dei francesi prende il sopravvento; alcuni colpi di cannone colpiscono gli insorti, le mura nord, le abitazioni vicine.

Il Generale Kellerman ordina alle truppe il massacro: oltre 100 Nepesini presi con le armi in mano sono uccisi. Trovata la Cattedrale chiusa dall’interno, sfondano il portone ed ammazzano le persone che vi si erano rifugiate, compresi i sacerdoti ed i monsignori ritenuti colpevoli di aver sobillato la popolazione. L’incendio e il saccheggio della città hanno inizio. Un’avanguardia dell’esercito napoletano (fonti francesi parlano di 1000 soldati) giunge a Nepi, dopo un breve ed inefficace scontro si ritira. Secondo le cronache il Generale Macdonald, anch’esso presente a Nepi, riparte alle undici di sera mentre la città brucia ancora …

Il 4 dicembre il Generale Macdonald riferisce al suo comandante Championnet di aver sconfitto cinque colonne napoletane per un totale di 40.000 uomini (!). Il giorno 5 le armate francesi concludono vittoriosamente il confronto con le truppe napoletane. La strenua difesa delle posizioni, una maggiore versatilità militare, hanno premiato i francesi, ma una serie di tragiche circostanze ha segnato per sempre Nepi.

“Arrivando (…) presso il villaggio, le sue truppe furono accolte da una grandine di pallottole: erano gli abitanti che spinti dai loro preti, avevano già preso le armi contro di noi. Le poche truppe napoletane che stavano a Nepi alzarono le gambe ed abbandonarono gli abitanti. Questi abbandonati alla loro sorte, vollero comunque resistere ma invano: la morte di alcuni nostri soldati, che essi immolarono, rese gli altri furibondi, la città fu presa d’assalto, tutti gli uomini furono passati a fil di spada, il fuoco era già stao acceso dagli obici, fu lasciato propagarsi. Di questa città non rimane altro che macerie e della sua sventurata popolazione solo donne bambini. Questo tremendo esempio era di una crudeltà resa necessaria per intimorire quelli che vogliono levare od hanno già levato lo stendardo della rivolta”.
Archive Historiques Paris. Dispacci militari relativi al periodo repubblicano. Le fotocopie sono conservate presso la biblioteca comunale di Civita Castellana.

Cento anni dopo il saccheggio della città, l’Amministrazione Comunale di Nepi volle ricordare i tragici avvenimenti con la pubblicazione del Memoriale del Canonico Soldatelli e, pose a “perenne memoria” una epigrafe nel portico del Palazzo Comunale.

Come è composta la divisione Francese

4 Brigate di fanteria

½Brigata mista di supporto

7 Squadroni di cavalleria

2 Batterie di Artiglieria con 30 cannoni

Servizi vari

Totale

8000 uomini

1000 uomini

1000 uomini

450 uomini

500 uomini

11000 uomini

Un bilancio complessivo dei danni materiali riportati dagli edifici pubblici e privati, distrutti e spogliati dei preziosi arredi, dalla irruzione francese in Nepi ha tuttora tanti lati oscuri. Si è certi soltanto della pressoché totale distruzione della Chiesa Cattedrale; è lo stesso curato del Duomo a testimoniarcelo: “…solo chi conosceva bene prima i tesori di questa chiesa, può rendersi conto del danno subito…”.

I colpi di cannone raggiungono le abitazioni nel versante nord; tra queste vi è la Basilica Cattedrale, simbolo tra l’altro della Nepi antigiacobina. Qui la successiva irruzione dei francesi, che fa seguito al saccheggio nelle vie cittadine, ha causato il maggior danno. L’antica basilica romanica (consacrata nel 1266) arricchita negli anni d’oro del rinascimento dalle famiglie Borgia e Farnese è distrutta.

La Cattedrale, fino all’attimo prima dell’irruzione, si presenta ai cittadini nepesini con cinque ampie navate, l’ultima delle quali (verso via G. Matteotti) fatta erigere dal Vescovo Francesco Silvestri pochi anni prima (1748-1754). Delle cinque, quella centrale è coperta da un mirabile soffitto a cassettoni, andato completamente in fumo. Il soffitto fu apposto nel 1608, come risulta dal contratto stipulato con i costruttori: maestri Silvestro, Francesco e Sanzio. L’assetto del portico d’ingresso dovrebbe essere simile a quello attuale, l’entrata della Basilica medievale è fatta modificare nel 1647 dal Vescovo Bartolomeo Vannini.
Tuttavia risulta dai documenti di ricostruzione l’acquisto del materiale per il rifacimento del portico: colonne di peperino e marmo per basamenti. La facciata è fornita di un rosone con vetrata istoriata (figura di Santi e Madonna) realizzata nel 1560. Per quanto riguarda il pavimento la pregevole fattura dello stesso è testimoniata dal frammento musivo situato nella parete destra del portico d’ingresso; i maestri Cosmati, impegnati anche nella vicina Civita Castellana, “firmano” questo splendido esempio all’inizio del XIII sec.. La torre campanaria si presenta come l’attuale, l’ultimo intervento di restauro risulta essere quello dell’epoca farnesiana (metà del XVI sec.), la piramide che la coronava è stata abbattuta da un fulmine nel 1922.

Il curato Soldatelli ci rende testimonianza della presenza di un organo quattrocentesco, anch’esso andato in fumo, così come sembrerebbe essere andato distrutto uno splendido pulpito di cui oggi si conservano le piccole statue dei quattro evangelisti che ne costituirebbero parte dell’ornamento. Dopo le fiamme anche parte della struttura muraria sembrerebbe compromessa; dai documenti che interessano la ricostruzione della Cattedrale si parla delle partite di muri laterali “…concotte dal fuoco e calcinate…”.
Il soffitto ligneo intagliato, l’organo quattrocentesco, il rosone decorato da preziosi vetri, il pulpito, il coro ligneo, le colonne; in definitiva tutto l’antico impianto è andato perduto.

Restano quali testimonianze silenziose: la facciata in mattoni, il portale d’ingresso del 1600, e la splendida cripta del XII sec. restaurata in seguito nel 1951. Sono invece scampati in larga parte gli archivi contenuti nella cattedrale: l’archivio diocesano, l’archivio Capitolare e l’archivio della Parrocchia; tuttavia, in riferimento a quest’ultimo, lo stesso Parroco Carlo Canonico Soldatelli afferma nella dichiarazione dello stato d’ anime (censimento) del 20 gennaio 1809 che nel saccheggio è stato incendiato l’archivio ed in conseguenza di ciò, si sono smarriti gli Stati d’anime precedenti all’anno 1796.

Sempre dalle dichiarazioni dei Parroci sullo Stato d’anime nell’anno 1809; dal Parroco della chiesa di S.Pietro, fra Filippo Landi, apprendiamo che il forte calo demografico che si rileva è determinato dall’ “…essere state abbrugiate alcune case, altre dirute ed altre spigionate…”. Tuttavia lo stesso curato non ci fornisce chiarimenti dettagliati riguardo le suddette distruzioni, per cui si suppone che siano riferibili all’irruzione dell’esercito francese.
Questa dichiarazione costituisce l’unico documento che attesterebbe distruzioni non inerenti la Basilica Cattedrale alle quali ci siamo ampiamente riferiti precedenza.
Dalle dichiarazioni dello stesso frate Agostiniano parroco di S.Pietro, datate una 27-08-1803 l’altra 21-1-1809, si rileva ancora che dal 1779 al 1803 sono venute a mancare nella Parrocchia in questione 69 anime, mentre dal 1803 al 1809 un numero di 15. Da questi dati statistici si evince che nel periodo fra gli anni 1779-1803 si è verificato il maggior calo demografico. Non si sono registrati danni irrimediabili negli altri mirabili monumenti che da secoli contribuiscono a rendere preziosa la cittadina di Nepi.

L’architetto Bolcan al termine del documento che riporta la descrizione e lo scandaglio dei lavori occorrenti per il rifacimento della chiesa ci fornisce una testimonianza indiretta di alcune conseguenze dell’incendio: ” … Si avverte peraltro che in questo scandaglio non restano compresi li lavori di risarcimento delli marmi dell’altare maggiore, Depositi, e tutt’altro devastato e spezzato tanto dalla caduta del tetto quanto anche dal fuoco, e saccheggio sofferto …”.

Ricognizione e traslazione del corpo di San Romano

In nomine Domini Amen.
Die 31 Ianuarii 1801 Indictione IV Sedente S.S. D.N. Pio Papa VII Anno 1.

“… Dovendosi ora di nuovo costruire la stessa cattedrale, già tanto vaga, e di sagre suppellettili e cose preziose sopra modo arricchita, resa oggi spogliata di tutto non solo, ma etiadio arsa e distrutta nel memorando senpre giorno delli due dicembre 1798, in cui venne questa città esposta al massagro, saccheggiata e bruggiata in gran parte dall’Armata francese, vedendosi perciò necessario rimuovere il medesimo Sagro Corpo dell’Altar Maggiore, ove era stata sopra riposto, per la dovuta decenza, commodo della fabbrica, necissità di restaurare l’Altare medesimo in gran parte ruinato da un colpo di cannone, e finalmente per renderlo preservatro dalla pioggia ed altre intemperie, trovandosi discoperta affatto la chiesa …”

2 Dicembre 1798
Incendio della città di Nepi

“… Anche questa città di Nepi, nella massima gioia, attendeva ansiosamente l’arrivo dell’esercito napoletano. Finalmente il primo dicembre del corrente anno, giunsero da Roma circa quaranta soldati a piedi ed a cavallo. Alla sera tutta la città si illuminò e fu festa; tutto il popolo prese le armi per unirsi ai soldati napoletani contro i francesi; ma troppo presto: I pochi napoletani, uniti al popolo, non furono sufficienti a resistere all’esercito francese.

Questo si era concentrato a Civita Castellana, forte di oltre mille uomini, dopo essere stato cacciato da Roma e Civitavecchia. D’altra parte, il grosso dell’esercito napoletano, troppo lontano ed insidiato da bande di Democratici, non poteva recare un aiuto efficace. Nepi fu stretta d’assedio dalla parte verso Civita Castellana.
Molti colpi di cannone e di armi da fuoco furono sparati dai napoletani e dai nepesini appostati sulle mura; caddero più di un centinaio di francesi, senza perdite da parte degli assediati. Venendo a mancare le munizioni, gli assediti furono costretti a ritirarsi e darsi alla fuga. I francesi entrano inferociti in città; uccidono quanti cittadini incontrano; entrano nelle case: le devastano e le incendiano; spogliano le chiese; asportano gli arredi d’oro e d’argento, deturpano le immagini sacre; manomettono i monasteri femminili, tentando di incendiarli.

Troppo lungo sarebbe descrivere i danni inferti. Finalmente si dirigono verso il Duomo. Durante la battaglia vi si erano rifugiati in preghiera molti sacerdoti e molti del popolo: chiuse le porte non si erano resi conto dello sviluppo della battaglia: giunti i soldati francesi davanti all’ingresso sbarrato lo abbattono con un colpo di cannone; entrano in massa e cominciano il saccheggio degli arredi sacri, delle suppellettili preziose, degli addobbi solenni.
Solo chi conosceva bene prima i tesori di questa chiesa, può rendersi conto del danno subito.

Per opera dei francesi perirono in questo giorno molte insigne reliquie: la reliquia dei Santi Protettori Tolomeo e Romano, chiusa e sigillata nella grande urna d’argento; il vapo di San girolamo, portato a Nepi durante il sacco di Roma del 1527; il corpo di San Teodosio martire, conservato nella cripta della chiesa; andò distrutto l’artistico organo quattrocentesco e l’altrettanto artistico soffitto in legno.

In questo stesso giorno furono uccisi in Duomo e fuori, l’arciprete Giovanni Battista Mecarocci e altri preti, cioè Nicola Fantaroni, Silvestro Affricani, Vincenzo Coracci, Nicola Marcucci, Bartolomeo Marcucci, Giuseppe Mezzanotte canonico della cattedrale di Civita castellana, Pietro Giusti e Pietro Oliva. Tra il popolo furono uccisi: Girolamo Betti, Nicola Soldatelli, Casimiro Marcucci, Domenico Pucciarmati, Francesco Pugnotti, Lorenzo Agostini, Angelo Guidi ed il sagrestano del Duomo Giovanni Battista Palazzini…”.

Carlo Soldatelli canonico curato del Duomo.
Registro dei morti della parrocchia del Duomo 1795-1848, foll. 17-18

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