Antiquaviva,  Libri,  Nepi,  Storia

Edmondo De Amicis, l’autore del romanzo “Cuore”, descrive il suo passaggio a Nepi.

Momenti e racconti tratti dal libro “Impressioni di Roma” scritto da Edmondo De Amicis durante il passaggio a Nepi delle truppe del Regno d’Italia. Il libro racchiude le memorie di un giovane De Amicis, inviato a Roma dal foglio “L’Italia Militare”, documentando il viaggio per la presa di Roma, nota anche come breccia di Porta Pia, episodio del Risorgimento che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia. La presa di Roma è avvenuta il 20 settembre 1870 e decretò la fine dello Stato Pontificio quale entità storico-politica. Fu un momento di profonda rivoluzione nella gestione del potere temporale da parte dei papi. L’anno successivo la capitale d’Italia fu trasferita da Firenze a Roma (legge 3 febbraio 1871, n. 33). L’anniversario del 20 settembre è stato festività nazionale fino al 1930, quando fu abolito a seguito della firma dei Patti Lateranensi. Edmondo Mario Alberto De Amicis (Oneglia, 21 ottobre 1846 – Bordighera, 11 marzo 1908) è stato uno scrittore, giornalista e militare italiano. È conosciuto per essere l’autore di Cuore, uno dei libri più popolari della letteratura mondiale per ragazzi. In giovane età divenne giornalista militare, trasferendosi a Firenze per assumere la direzione de L’Italia militare, organo ufficiale del ministero della guerra. Come giornalista militare, De Amicis collaborò poi con il quotidiano La Nazione di Firenze, per il quale scrisse articoli soprattutto sulla presa di Roma del 1870. Abbandonato l’esercito, viaggiò e scrisse vari diari di viaggio. In questo libro De Amicis, racconta l’entrata delle truppe nella piazza di Nepi.


IMPRESSIONI DI ROMA
Edmondo De Amicis 1870

Entrata delle truppe in Nepi:
Prima di esporre le impressioni di Roma crediamo opportuno di dare un’idea dell’animo con cui i soldati italiani movevano verso la grande città. La seguente lettera scritta da Nepi a un giornale di Firenze crediamo che riassuma quanto fu detto in molte, altre sopra lo stesso argomento.

Nepi, 13 settembre 1870
Se vi fu mai giorno ch’io abbia rimpianto dal più profondo del mio cuore di non poter esprimere e trasfondere in altri quello che io sento, quel giorno è questo….
Vi scrivo colla mano tremante. Il mio compagno, che scrive allo stesso tavolino, è anche egli commosso come fu certo poche volte in sua vita. Io vorrei poter correre a Firenze e narrare a tutti quello che vidi. Vorrei poter parlare coi ministri e dir loro:
— Per la salute d’Italia, non vi fermate più,
— o meglio:
— non vi potete più fermare; vi giuro che è impossibile; se foste stati presenti questa sera allo spettacolo a cui io assistetti, direste anche voi:
— è impossibile.
Parlo dell’entrata delle truppe in Nepi. Cominciarono a entrare alle 3, terminano adesso che son le 8. Sul primo entrare di Nepi v’è una larga piazza. È ancor adesso stipata di gente. È indicibile l’entusiasmo con cui i soldati entrarono. Io non vidi mai uno spettacolo simile, nemmeno nei primi giorni del 1866. Fu una cosa da far piangere. Non si può descriverla senza far dubitare che la si sia voluta alterare. Chiunque, anche il più freddo degl’Italiani, anche il più scettico, anche un nemico della libertà, della rivendicazione di Roma, della gloria della sua patria, si sarebbe sentito accender il sangue. Che battaglie! Che vittorie! Dopo una battaglia, dopo una vittoria si entra in un paese colla febbre del trionfo, col fremito della gioia, coll’ardore, coll’impeto superbo dei conquistatori e dei prodi; ma quest’allegrezza, questa espansione di cuore così serena, schietta, irresistibile , questo slancio patriottico cosi unanime e possente, non si può dare che nei soldati d’un grande esercito che entrano in una delle più care terre della patria, dopo una lunga e dolorosa aspettazione, dopo molti e grandi sacrifizi, e c’entrano colla coscienza di cittadini , di liberatori , penetrati dalla santità della causa , fratelli che vanno ad abbracciar fratelli, italiani che sentono da lungi la voce di Roma e vogliono gettarsi sul seno della loro grande ed eterna madre. Quante cose mi si affollano alla memoria! Quanto peno di non poterle dire tutte insieme! I battaglioni di bersaglieri, i reggimenti, gli squadroni entrarono gli uni dopo gli altri come sarebbero sfilati ad una parata, in ordine perfetto.
La piazza era stipata di gente che prorompeva in applausi.
I soldati passavano impetuosamente levando alte grida. A dieci, a cento assieme esclamavano:
— A Roma!
— Vittorio Emanuele in Campidoglio!
Vi ridico le voci testuali.
— Viva i bersaglieri a Roma! gridavano.
E compagnie intere cantavano in coro con una voce in cui si sentiva il fremito dell’entusiasmo. S’ erano fatti loro le canzoni. Una fra l’altre era cantata da tutti: Pianteremo in Campidoglio. La bandiera tricolor.
E ad ogni grido che partisse da un soldato, tutti rispondevano, tutti in un punto, con un clamore che copriva il rumore dei carri ‘e lo squillo delle trombe.
Le bande dei reggimenti suonavano senza interruzione la marcia reale.
Non uno si allontanava dalle file, non uno metteva piede in una bottega, non uno domandava da bere.
— Che bei soldati! — si diceva tra la folla.
— Come vanno volontarii!
— Come sono allegri!
— Che bei concerti!
— Semo digiuni da stamattina per vede passare i soldati.
E che ammirabile contegno! I cittadini di Nepi si dicevano l’un l’altro con grande meraviglia:
— Non dicono niente alle donne!
— Lasciano stare le donne!
— Rispettano le donne!
— Bisogna dillo,
sentii dire da un giovanotto:
— i soldati che ce portate voi sono gente educata.
— Si va a Roma! — disse un popolano ad un bersagliere.
— A Roma! — egli rispose
— questa volta non c’è più scusa.
— Bene!
Questa è una frase che vale una nota diplomatica. Le donne del popolo ci si affollavano intorno per farci mille domande intorno alla leva. Ecco un dialogo testuale seguito fra me e una contadina.
— Quanti anni ce stanno?
— Finito quest’affare di Roma, ci staranno tre anni, e fors’anche coll’andar del tempo due.
— Eli! non è po’ sta gran cosa, — ella diceva, volgendosi alle sue compagne.
— E poi dovete notare che imparano a leggere e a scrivere. Meraviglia generale.
— Ma chi gl’ensegna.
— I caporali, i sergenti, gli ufficiali. Nuova meraviglia.
E un’altra donna a me dice:
— Ma ci hanno pazienza a insegnare? – È obbligo. Terza meraviglia.
— È una bella cosa.
— Può tornar di conto.
— Sicuro.
— Benissimo.
I giovanetti si affollavano intorno a me e al mio amico Stuart e ci dicevano che avrebbero fatto volentieri i soldati:
— al meno se sta allegri.
V’interrompo per giurarvi su quanto v’ è di più sacro al mondo che non aggiungo una parola.
Mi furono presentati due o tre ragazzi dalle loro madri.
— E questo, — una mi domandava, farà il soldato?
— E questo qui?
— E quest’altro?
— Tutti bei ragazzi, tutti nei bersaglieri, tutti bravi soldati.
E i ragazzi battevano le mani e le mamme erano costrette a sorridere.
Ma se l’ho sempre detto ai miei amici: questa gente non ha bisogno d’altro che di un po’ di luce; tutto l’altro l’ha; guardateli negli occhi.
Venne avanti un contadino.
— Questi so’ soldati nostri davvero!
— Perchè?
— Perchè armanco ce capimo.
— Bravissimo.
E un altro salta fuori con questa bella frase:
— Semo tutti carne italiana!
E un terzo, ancora ragazzo
— Chi mi desse un fucile!
Volli dare una prova a codesta gente di come sono educati i soldati italiani. Passavano i bersaglieri. Uno si fermò e volgendosi intorno:
— Chi mi fa il favore di andarmi a comperare un sigaro?
— Eccolo, diss’io porgendogliene uno.
— Grazie.
E lo prese e scomparve. Io rimasi un po’ dubitoso. Dopo due o tre minuti eccomelo davanti con un soldo in mano.
— Scusi, sa, — mi disse con molta gentilezza,
— non lo avevo trovato subito.
— Vedete? dissi allora volgendomi intorno,
A quella povera gente parve di sognare.
A un altro che domandò un fiammifero correndo, diedi la scatola intera. La prese sparì, tornò molto tempo dopo correndo, me la rimise in mano e di nuovo disparve.
E mentre codesto accadeva, mentre codesti dialoghi si facevano, i reggimenti continuavano a passare, e dopo i reggimenti i bersaglieri, e dopo i bersaglieri le batterie, e dopo le batterie il treno, e dopo il treno daccapo reggimenti, ‘e sempre grida, musiche, canti, evviva, e sempre tutti in ordine, serrati, lesti, dopo quella lunga marcia come se fossero usciti poco prima dal campo.
— Quanto c’ è di qui a Roma? — gridavano passando in fretta i soldati.
— A rivederci a Roma!
— Dopo domani a Roma! Roma! Roma!
Da ultimo non si sentiva più che questo grande ed amato nome. Su tutti quei volti abbronzati, che il lume delle lanterne a quando a quando rischiarava, si vedeva brillare un sorriso, si vedeva espresso un affetto e dipinta una gioia che non si può ridir con parole.
Ed io vi scrissi tutto questo d’un fiato, senza arrestarmi un istante; solamente alzando di tratto in tratto lo sguardo sul mio compagno che scrive anch’ egli a precipizio colle lacrime agli occhi e colla mano convulsa.
Se avessi potuto prevedere codeste scene v’avrei trascinati tutti con me; se tutti gli italiani avessero potuto prevederle, tutti sarebbero venuti. Incontrammo molti ufficiali nostri amici durante questo spettacolo. Al primo vederci, non ci parlammo, non ci salutammo, ci allargammo le braccia e ci stringemmo come fratelli nel giorno di una gran festa di famiglia.
Vi saluto, sono stanco. Ricorderò sempre questo gran giorno come uno dei più belli della mia vita.

Palazzini Pietro

Translate »