Antiquaviva,  Libri,  Nepi,  Storia

Nepi: Ugo Pesci – Cronache di guerra 1870.

Oltre ad Edmondo De Amicis, mandato dall’ Italia Militare, altri giornalisti scrissero del passaggio delle truppe a Nepi durante il viaggio verso Roma. Tra questi il Conte Carlo Arrivabene, deputato e corrispondente del Daily Telegrph, Roberto Stuart per il Daily News, l’Arbib per la Gazzetta del Popolo di Firenze, due corrispondenti di giornali dì Torino e Ugo Pesci redattore del “Fanfulla”, del “Corriere della Sera”, del “Caffè e direttore della “Gazzetta dell’Emilia”. Ugo Pesci (Firenze, 22 ottobre 1846 – Bologna, 13 dicembre 1908) è stato un giornalista italiano, studioso di Casa Savoia. Dopo gli studi a Firenze, frequentò l’Accademia militare di Modena conseguendo nel 1865 il grado di sottotenente. Nella terza guerra d’indipendenza, ufficiale dei granatieri, prese parte alla battaglia di Custoza. Terminata la carriera militare, intraprese quella giornalistica, lavorando nella redazione fiorentina del Fanfulla. Nel 1870, come inviato del medesimo quotidiano, assistette alla breccia di Porta Pia. Fu redattore del “Corriere della Sera” e del “Caffè. Nei periodi successivi, frequentò la corte di Vittorio Emanuele II e conobbe diversi esponenti dell’alta borghesia laica cittadina e dell’ambiente vaticano. A Bologna, fu direttore della Gazzetta dell’Emilia. Nel libro “Come siamo entrati in Roma” memorie di Ugo Pesci con prefazione di Giosuè Carducci 1911, l’autore racconta alcuni episodi durante il passaggio a Nepi, avvenuto nel 1870, delle truppe che si recavano a Roma. Riportiamo parte della cronaca di quei tempi tratta dal libro di Ugo Pesci:

Come siamo entrati in Roma
ricordi di Ugo Pesci
prefazione di Giosuè Carducci 1911

La mattina del 13 ci alzammo dal letto con la stessa nebbia del giorno prima. Le notizie della notte furono queste. Era morto il soldato del 30° fanteria gravemente ferito a un braccio. Si sapeva che il generale Ferrero, passato il Tevere ad Orte, era giunto in prossimità di Viterbo, da dove il colonnello De Charrette si era ritirato verso Vetralla. Il generale De Chevilly partiva con otto squadroni e due sezioni d’artiglieria per Ronciglione e Sutri per tentare di tagliargli la strada, se il De Charrette avesse avuta l’intenzione di sboccare a Monterosi sulla via Cassia.
Che cosa era accaduto intanto al quartier generale del 4° corpo? Verso il meriggio del 13 vi era giunto un dispaccio cifrato del ministro della guerra. L’ufficiale di stato maggiore di servizio — era il capitano Alessandro Buschetti — al quale incombeva di decifrarlo, si affrettò a disimpegnare il suo ufficio e a presentare 11 dispaccio al generale Cadorna. Era stato spedito alle 9 ant. e diceva precisamente cosi :
In seguito deliberazione Consiglio de’ ministri prego portare grosso suo corpo a marcia forzata sotto Roma, per giungere al più lardi domattina.” Ricotti. „

Si trattava di una marcia di circa 60 chilometri per le divisioni Cosenz e Mazè de la Roche e per la riserva, di più di 80 per la 13° divisione.
Il giovane capitano — oggi maggior generale comandante la brigata Bologna — portò il telegramma-ordine al generale, aspettandosi forse di sentirlo fare qualche naturale osservazione sopra la difficoltà di eseguirlo. Il generale Cadorna invece, senza perdersi in vane parole, senza mandare a male neppure un minuto, diramò immediatamente agli ufficiali del suo stato maggiore l’ordine d’andare agli accampamenti affinché le truppe della 11° e 12° divisione, provvedute di viveri a secco, sì mettessero in marcia per Nepi e Monterosi, facendole seguire dal loro carreggio quando fosse stato possibile.
Mezz’ ora dopo la una pomeridiana le truppe erano già in movimento. Le due divisioni dovevano marciare sulla stessa strada per Nepi, Monterosi e Posta della Storta, insieme con i sei battaglioni bersaglieri, il reggimento Novara, e la brigata da posizione del 9° artiglieria che formavano la riserva comandata dal generale Celestino Corte. Corte e De Charrette si potevano trovare dunque, da un momento all’altro, di fronte. S’erano trovati qualche settimana prima in un vagone sulla ferrovia da Torino a Bologna. Il Corte, fumatore impenitente, essendo per caso senza fiammiferi, pensò di chiederne ad un bel signore biondo, dai lunghi baffi, che leggeva in un angolo i fogli della giornata. Scambiando poche parole si riconobbero: De Charrette! Corte! Erano stati compagni all’Accademia militare di Torino: si strinsero la mano e, come accade rivedendosi dopo un pezzo, parlarono prima di molte cose passate, e il discorso andò a finire naturalmente in uno scambievole:
— Dove vai? — De Charrette andava a Roma in fretta, richiamato al reggimento degli zuavi pontifici del quale era tenente colonnello e comandante in seconda: Celestino Corte andava a Firenze, da dove il ministro della guerra lo aveva mandato a chiamare per affidandogli il comando dell’artiglieria del corpo d’osservazione. Si erano lasciati alla stazione di Firenze con un
— A rivederci — che voleva dir molte cose.

Verso sera partimmo da Civita-Castellana sperando d’arrivar presto a Nepi; ma l’uomo propone e, qualche volta in campagna, il carriaggio dispone. Andammo a battere il capo nella brigata d’ artiglieria da posizione, nel parco della riserva, nell’equipaggio da ponte comandato da un ottimo valtellinese, il capitano Benedetto Della Croce, — oggi colonnello della riserva — e nel grosso carreggio delle due divisioni e della riserva; come chi dicesse in una colonna di carri di tre chilometri di lunghezza, alla quale ci fu possibile arrivare in testa soltanto a non molta distanza dalla antica Nepetam. Il conte Arrivabene sonnecchiava; io mi divertivo a tendere l’orecchio ed ascoltare i dialoghi dei soldati. Qualche volta, di rado, udivo anche i complimenti espressivi dei conducenti obbligati a tirarsi da parte per farci strada. Splendeva la luna e metteva in piena evidenza le architettoniche bellezze dell’acquedotto romano che passa sopra tre ordini d’ archi, non molto distante dalla città. In piazza, dentro la città, ci dissero che l’edifizio nel quale risiedeva il municipio — e vi risiederà ancora — è architettato dal Vignola. Non avevo né tempo né volontà di verificare la notizia. Gli stimoli dell’appetito cominciavano ad essere veramente tremendi ed anche a Nepi due divisioni e sei battaglioni bersaglieri avevano fatto tabula rasa. L’avvocato Vergati, uno dei notabili di Nepi, ci poté offrire un pezzo di pan duro e del formaggio pecorino. Abbiamo dormito tre ore, sopra un po’ di fieno disteso sul pianerottolo d’una scala; i cavalli del nostro vetturino, poiché non spinti sulla via di Roma da alcuna idealità patriotica, avevano assoluto bisogno di riposarsi.
Alle quattro eravamo di nuovo in marcia e giungevamo mezz’ ora dopo al punto dove la strada di Viterbo, costeggiato il lago di Vico ed attraversato Ronciglione, sbocca nella via Cassia a destra di chi va verso Roma. Giungevamo a tempo per vedere arrivare la divisione del generale Ferrero, e per imparare in poche parole la storia di quanto essa aveva fatto dall’alba del 12 all’alba del 14. Al comparire delle banderuole azzurre delle prime pattuglie de’ lancieri Milano, i pochi zuavi di presidio a Viterbo, s’erano, come ho detto, ritirati verso Vetralla. Alle 2 pomeridiane del 12 il generale Ferrero entrava in Viterbo fra grande allegria di popolo. La sera v’era stato grande sfoggio di lumi, di bandiere e d’evviva, e la divisione, accampata intorno alla città, s’era riposata della lunga marcia fatta il giorno precedente da Narni a Viterbo per Orte. La mattina del 13, il Ferrero, ragguagliato dal Cadorna dell’ordine venuto da Firenze d’affrettare la marcia su Roma, lasciando un battaglione a Viterbo, s’era avviato speditamente per Ronciglione in modo da incolonnarsi con le altre due divisioni del 4° corpo.
Questo ci disse il colonnello Pozzolini, mentre la 13° divisione si disponeva a mettere il campo. Profittai del momento nel quale anche 11 grosso della 11° e 12° divisione s’era fermato prima d’arrivare allo sbocco della strada Ronciglione- Viterbo, per andare a mettermi alla testa della colonna, e mi incamminai a piedi verso Monterosi insieme con uno squadrone d’Aosta. V’è un’erta abbastanza ripida avanti d’arrivare al villaggio: anche i cavalli la facevano passo passo, il che mi dava agio di chiacchierare con gli ufficiali. Ad un tratto vediamo un caporale venir giù verso di noi a briglia sciolta, fermandosi sulle quattro zampe del cavallo davanti al primo ufficiale incontrato, e dicendogli qualche cosa. L’ ufficiale volta immediatamente il cavallo e corre verso il capitano con la faccia atteggiata in modo da rivelare l’impressione di una grande sorpresa. Dice una parola sola; una parola talmente strana da far rimanere allibito l’uomo più imperturbato del mondo. Il capitano si lascia scappar di bocca una energica e comica esclamazione in puro dialetto milanese. Tiriamo fuori i canocchiali da campagna e guardiamo attentamente in direzione del villaggio, distante ancora un buon chilometro, e vediamo fra gli ulivi, che si disegnano con i loro rami scontorti sull’azzurro del cielo, due, quattro…. dieci uomini, in uniforme militare, con i pantaloni rossi, i famosi pantaloni garance!!
Il caporale era venuto di galoppo dicendo:
— I francesi! — E l’ufficiale aveva ripetuto al capitano:
— I francesi! — I pantaloni rossi erano proprio, vale a dire parevano pantaloni francesi…. Erano ritornati dunque, come nel 1867? E con i tedeschi sotto Parigi avevano il fresco cuore di lasciar la Francia per venire a difendere il Papa?
— E che cosa ci dà dunque ad intendere il tuo Fanfulla, — esclamò a bruciapelo il capitano — quando racconta che Giulio Favre usa un linguaggio amichevole verso l’Italia? Alla larga da quel linguaggio!
Tutto questo era durato un baleno, un attimo, ne v’era stato neppure tempo a riflettere che quei francesi avevano un’attitudine molto pacifica. Né la riflessione poté venirci in mente prima che un lanciere, fra il sorridente e il mortificato, fosse venuto egli pure a briglia sciolta a aggiungere il caporale e gli avesse detto che quei francesi erano…. la banda musicale di Monterosi. Il quartier generale fa sosta al paese. Arrivabene ed io, poiché anche i cavalli ed il vetturino sono del nostro parere, almeno per il momento, pensiamo di andare avanti. Prima di mezzogiorno siamo a Baccanaccio, una meschina osteria da carrettieri dove, avendo preceduto gli altri, possiamo trovare la solita razione di pan uro e di pecorino. Siamo a venticinque chilometri da Roma: la gran città è la, dietro quelle ondulazioni di terreno che non sono pianura e non si possono chiamare colline. La campagna è mesta, squallida, deserta, ma pur tanto bella…. tutto sembra parlare all’intorno d’una immensa grandezza caduta, la quale però solleva l’anima e fa meditare, come quella che appartiene alla storia del mondo.
Accanto alla porta dell’osteria giace un bel capitello antico di bianchissimo marmo finemente scolpito. Sulla porta dell’osteria è fissata una piccola bandiera tricolore di carta. Dopo un’oretta, cominciano a passare a passo svelto, al suono di allegre fanfare, i sei battaglioni di bersaglieri della riserva, e vedendo quella banderuola i bersaglieri gridano a squarciagola viva l’Italia.
Dirimpetto all’osteria, dall’altro lato della strada, otto o dieci butteri, uomini barbuti, di complessione ercolina, col cappello alla calabrese, la giacchetta celeste, la sottoveste rossa, i mezzi pantaloni di pelle di capra, sollevandosi dalla sella arcaica e squassando le poderose destre armate del pungolo, rispondono gridando con tutta la forza dei loro poderosi polmoni e l’energia dell’espressivo dialetto…. Evviva li versaglieri.

———————————————

Rapporto del generale Cadorna sul combattimento di Civita Castellana.
Al Minisiero della Guerra.
Lettera del 12 settembre.

Come già informava l’E. V. con mio telegramma, giungendo questa mattina sotto Civita Castellana coll’11° e 12° Divisione e colla riserva del Corpo d’armata, incontrai resistenza per parte di una compagnia di disciplina (82 uomini) e di un corpo di zuavi (95 uomini) che incominciarono primi il fuoco dal convento dei Cappuccini, poi si rinchiusero nel castello donde continuarono a far fuoco di fucileria.
Ad onta di questo però la città fu subito occupata da un battaglione di bersaglieri, mentre altri due battaglioni con un movimento girante precludeva loro le vie di Nepi e Rignano.
Nel tempo stesso feci aprire il fuoco contro il castello da una batteria di artiglieria.
Il fuoco durava circa da un’ora e dal castello si continuava a far la fucilata.
Allora feci avanzare due altre batterie.
Questo movimento persuase il presidio a cessare dalla resistenza e sventolò bandiera bianca.
Cessò allora il fuoco dalle due parti.
Un capitano indigeno venne allora come parlamentario, al quale imposi la capitolazione che qui acchiudo in copia e che fu senza difficoltà accettata. Per attenermi alle istruzioni dell’E. V. ho abbondato nel far loro condizioni vantaggiose, mentre essi chiedevano solo salva la vita.
Faccio partire per Spoleto i capitolati ed ho disposto perchè non soffrano sfregi dalla popolazione, essendo questo anche il desiderio manifestatomi dal capitano parlamentario.
Ho scritto al Comandante generale della Divisione di Perugia che tenga gli indigeni riuniti come deposito e gli esteri come prigionieri di guerra in attesa delle determinazioni di codesto Ministero.
Dalla nostra parte vi furono sei o sette leggermente feriti, eccettuato un bersagliere che ebbe offeso un braccio piuttosto gravemente. I Pontifici ebbero tre feriti.
Mi sono tosto adoperato per assicurare le comunicazioni telegrafiche le quali attualmente funzionano fra Civita Castellana e Firenze, tanto per la linea di Narni quanto per quella ferroviaria per Borgbetto.
Sono pure in comunicazione telegrafica con Viterbo, ma per la via di Firenze.
Dalla Brigata Mista che l’E. V. mi annunziò avere inviata a Perugia per fornire i presidi in queste provincie, per ora non mi abbisognerebbe che un battaglione, che dovrebbe essere spedito ad Orte e da Orte progredirebbe a Viterbo per tenervi presidio, ed un altro battaglione qui a Civita Castellana, il quale distaccherebbe una compagnia a Corese per guardare il ponte e la stazione telegrafica.
Pregherei per questo V. E. di volere impartire gli ordini opportuni, e con qualche sollecitudine per potere disporre di tutte le forze della divisione Ferrero.
A seconda poi di quanto le notificai ieri con mio telegramma, la 13° divisione ha occupato ieri verso le 6 di sera la città di Viterbo, i Pontifici avevano evacuato la città poco prima dello arrivo dell’avanguardia della divisione, cioè verso le 2 pom. Furono fatti prigionieri 14 zuavi e 9 gendarmi.
I Pontifici si ritirarono nella direzione di Vetralla.
Con questa occasione chiedo schiarimenti a V. E. sul trattamento delle truppe pontificie, se le larghe concessioni loro fatte, sono applicabili solo a quelli che non facciano resistenza, oppure a tutti, parendomi, sotto l’aspetto militare esclusivamente, anche forse possa non essere nelle viste di codesto Ministero, di trattare meglio quelli che non si battono degli altri che facessero opposizione.
Con questa occasione Le soggiungo che domani mi reco col quartiere generale ed i bersaglieri a Monterosi, che l’11° e 12° divisione accamperanno poco più innanzi, precedute di una tappa dalla cavalleria, e che la 13° si recherà a far tappa prima della congiunzione delle due strade di Ronciglione e di Nepi. Il parco d’artiglieria domani sarà trasportato a Civita Castellana.

Cadorna

Palazzini Pietro

Translate »